Sindromi tumorali ereditarie: strategie per migliorare i test a cascata

Una recente rassegna analizza gli approcci utilizzati per implementare le indagini genetiche sui familiari a rischio di tumori ereditari, evidenziando la mancanza di una strategia scientifica per la propagazione degli interventi efficaci

Le linee guida internazionali e nazionali indicano in modo chiaro i criteri di accesso ai test genetici sul sangue periferico, per identificare i soggetti portatori di varianti germinali, in particolare per le due sindromi tumorali ereditarie più diffuse, cioè quella del cancro ereditario alla mammella e all’ovaio (geni BRCA1-BRCA2 e altri minori) e la sindrome di Lynch, correlata al tumore del colon-retto, dell’endometrio e altri (geni del mismatch repair). Oggi però solo una percentuale minore di soggetti eleggibili viene indirizzata ai test genetici ed è ancora più problematica la questione dei test a cascata sui familiari che potrebbero aver ereditato il gene mutato e quindi essere ad alto rischio di neoplasie, come sottolinea una recente revisione della letteratura scientifica, pubblicata sulla rivista Genomic Medicine. Gli autori dello studio hanno analizzato le attuali strategie di intervento per migliorare i test a cascata, valutando la qualità degli approcci e quanto possano aiutare a implementare i test genetici nei familiari a rischio. Approfondiamo l’argomento con l’aiuto di Fabio Puglisi, professore ordinario di oncologia medica all’Università di Udine e direttore del Dipartimento di oncologia medica dell’IRCCS Centro di riferimento oncologico (CRO) di Aviano.

Fabio Puglisi

Che cos’è il test a cascata

Quella dei test a cascata è una procedura utilizzata in ambito genetico per identificare la presenza di varianti patogeniche ereditarie all’interno di una famiglia. «Questo tipo di test – spiega Puglisi – dovrebbe essere eseguito quando viene identificato un individuo affetto da una sindrome tumorale ereditaria, che si definisce probando (il primo della famiglia), con l’obiettivo di vedere se i suoi familiari hanno ereditato la stessa variante patogenica e quindi sono anch’essi ad alto rischio di sviluppare tumori».

In pratica si possono immaginare due passaggi principali. Il primo in cui viene identificato il probando, che viene informato sull’opportunità e l’importanza di condividere le informazioni genetiche con i familiari a rischio (figli, genitori, fratelli in primis). Il secondo in cui si cerca di coinvolgere i famigliari che vengono informati sulla possibilità di essere a loro volta a rischio.

Obiettivo del test genetico

«Attraverso la consulenza genetica i parenti a rischio vengono aiutati a comprendere il significato del test genetico a cascata, le implicazioni del risultato e le opzioni disponibili in caso di risultato positivo – continua Puglisi -. Se il test è positivo possono infatti essere prese misure di prevenzione e sorveglianza intensiva, in alcuni casi anche interventi medici o chirurgici mirati a ridurre il rischio di sviluppare tumori (per esempio la mastectomia profilattica per il tumore mammario e la ooforectomia per il tumore ovarico)».

Il test a cascata ha quindi la funzione di identificare precocemente i membri di una famiglia che possono essere a rischio di tumori ereditari e prendere i provvedimenti più opportuni previsti dai protocolli.

Lo studio

Gli autori dello studio hanno cercato di capire, attraverso una revisione sistematica della letteratura scientifica (27 studi condotti in 9 Paesi, 17 dei quali prospettici, 5 retrospettivi e 5 trasversali), quali siano le strategie utilizzate per implementare i test a cascata in presenza di sindromi tumorali ereditarie, le quali rendono conto di almeno il 10% di tutti i tumori. A questo scopo hanno adottato una tassonomia particolare, nota come EPOC (Effective Practice and Organization of Care), per definire quelle pratiche che vengono messe in atto per migliorare l’organizzazione assistenziale.

«La comunità medica e scientifica è consapevole dell’importanza dei test a cascata, ma le percentuali di adesione sono ancora molto basse. Secondo i dati riportati nello studio si attestano al di sotto del 30% – spiega Puglisi -. Quello che emerge è che molte delle strategie di intervento hanno dimostrato successo nel migliorare l’adozione dei test a cascata, però rimane bassa la qualità della descrizione degli interventi e della valutazione dei risultati dell’implementazione, ovvero di quello che poi viene fatto. Gli studi in pratica descrivono le strategie in modo subottimale, diventa così difficile replicare i risultati e quindi il modello a cui ispirarsi».

Le strategie per migliorare i test a cascata

Nella rassegna sono state analizzate varie strategie per implementare l’adesione ai test a cascata ed è emerso che una delle più efficaci riguarda l’uso di strumenti educativi/tecnologici, come la consulenza genetica telefonica o in telemedicina, e l’invio per posta di un kit per la raccolta della saliva su cui poi effettuare il test genetico. «La combinazione di questi due approcci ha portato a tassi di adesione al test genetico superiori al 70% – riferisce Puglisi -. In generale l’adozione dei test a cascata è passata dal 33 al 41% nei gruppi di intervento rispetto ai gruppi di controllo. Indubbiamente, la consulenza genetica, di persona o da remoto attraverso la telemedicina, è un passaggio fondamentale per far capire le ricadute di un test genetico positivo e quindi mettere in atto accorgimenti preventivi e una sorveglianza personalizzata».

Procedure ben definite

«Il concetto che deve guidare quando si parla di test genetici in generale e, in questo caso, dei test a cascata è che si tratta di ambiti in cui non ci si può improvvisare. Servono procedure ben definite, strutturate – sostiene l’esperto -. Quando parliamo di consulenza genetica, dobbiamo pensare anche alla necessità, per esempio, di avere uno psicologo che possa essere di sostegno ai familiari».

Ci sono molti genitori che si sentono responsabili di trasmettere l’alterazione ai figli, tanto da non volere in alcuni casi condividere con i familiari le informazioni sulla presenza di varianti patogeniche che predispongono al cancro. In altri casi, madri e padri vogliono proteggere la salute mentale/psicologica dei figli, e decidono di aspettare che crescano prima di proporre loro di fare il test.

«A seconda del tipo di variante patogenetica è possibile gestire l’informazione ai familiari in modo personalizzato, ma occorrono competenze mediche e plurispecialistiche, in particolare di genetica medica. Dobbiamo andare in questa direzione, ma ci vuole tempo per arrivare a una buona organizzazione dei percorsi. Si tratta di una materia in continua evoluzione, bisogna prendere le misure con i nuovi strumenti. Per esempio oggi abbiamo pannelli multigenici molto ampi, ma dobbiamo essere in grado di gestirli e analizzarli. A questo scopo serviranno anche nuove figure professionali o le stesse di ora che dovranno però rimodulare le proprie competenze» fa notare Puglisi.

Test genetici a uso terapeutico

Non bisogna infine dimenticare che alcuni test genetici, oggi effettuati mediante NGS con finalità terapeutiche, volti quindi a identificare terapie personalizzate in presenza di specifiche mutazioni somatiche del tumore, sono sempre più utilizzati rispetto al passato. «Quando andiamo a studiare la biologia molecolare con un obiettivo terapeutico acquisiamo delle informazioni che in alcuni casi possono portare all’identificazione di alterazioni molecolari correlate alla presenza di varianti patogeniche germinali. In questi casi i risvolti possono essere sia sul probando, per la migliore scelta terapeutica, ma anche sui familiari che diventano candidati per i test a cascata» conclude Puglisi.

Antonella Sparvoli

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