La necessità di un equilibrio tra coordinamento nazionale e autonomia differenziata nel nostro sistema sanitario

Il nostro sistema sanitario nazionale (SSN) è ispirato all’art. 32 della Costituzione che tutela la salute come diritto fondamentale dell’individuo e interesse primario della collettività: si basa sui principi cardine di universalità, eguaglianza ed equità, garantiti dal sistema di finanziamento pubblico tramite la fiscalità generale. Questi tre principi dovrebbero salvaguardare la coesione sociale del Paese per contrastare, nell’ambito della salute, le disuguaglianze sociali, economiche e culturali, oltre che quelle territoriali connesse alla regionalizzazione, attuata inizialmente nel 1978 e ulteriormente rafforzata nel 1999, attribuendo alle Regioni nuove e più ampie prerogative nella programmazione e nella gestione dei servizi sanitari. La regionalizzazione è ormai talmente acquisita che spesso, tra gli addetti ai lavori e tra i cittadini, si afferma che il nostro SSN è in realtà composto da 21 sistemi sanitari regionali/provinciali (SSR) – comprese le due province autonome di Trento e Bolzano – del tutto autonomi e scarsamente comunicanti tra loro. Pur essendo considerato uno dei migliori al mondo, oggi il sistema sanitario nazionale soffre di una grave crisi, al punto da convincere quattordici eminenti personalità del mondo scientifico e della ricerca – tra cui Giorgio Parisi, Silvio Garattini, Franco Locatelli, Alberto Mantovani, Francesco Perrone – a sottoscrivere un appello accorato ai cittadini, ai media, ai decisori politici, alle Istituzioni per ribadirne l’insostituibilità e rilanciarne lo sviluppo.

Nel dibattito pubblico la maggior parte dell’attenzione è focalizzata sulle risorse – l’incidenza sul PIL della spesa pubblica in sanità è scesa nel 2023 al minimo storico del 6,2% contro il 7,5% medio dei Paesi europei più evoluti e non si prevede una inversione di tendenza nei prossimi anni -, un tema rilevante cui sono correlate notevoli criticità come la insufficienza del personale sanitario (medici e infermieri), gli scarsi investimenti nella ricerca pubblica, i lunghi tempi di attesa delle prestazioni, i ritardi nell’aggiornamento e nel finanziamento dei LEA (livelli essenziali di assistenza) che avrebbero dovuto ridurre le disparità nei diritti alla salute tra le varie regioni. Ma esistono altre questioni da affrontare, più complesse e altrettanto importanti, che sono decisive non solo per salvaguardare il modello universalistico ma anche per garantire la sostenibilità economica futura del SSN. 

In primo luogo, è fondamentale sciogliere definitivamente il nodo della “governance sanitaria”. Nessuno può mettere in discussione la necessità di mantenere decentrata la “gestione e organizzazione” della sanità, sia per una esigenza democratica di vicinanza e controllo, sia perché i bisogni di salute dei cittadini (demografia, patologie, epidemiologia, stili di vita, specificità e conformazione del territorio) e le caratteristiche dell’offerta sanitaria (istituzioni sanitarie regionali e territoriali, ospedali, personale sanitario, articolazione della medicina territoriale) sono profondamente diverse nel nostro Paese e impongono un approccio “bottom-up”. Riguardo alla proposta di legge in corso sull’Autonomia Differenziata è doveroso chiarire che un trasferimento a livello regionale di ulteriori competenze e risorse non può prescindere da un rafforzamento del coordinamento nazionale delle politiche sanitarie, senza cui non sarebbero salvaguardati i principi di universalismo, eguaglianza ed equità sanciti dalla nostra Costituzione. Se già ad oggi, dopo 45 anni di “modello regionale soft”, si sono venuti a creare divari nella qualità dei servizi sanitari regionali e iniquità di accesso alle prestazioni, sia tra le varie Regioni (Nord, Centro, Sud, Isole), sia all’interno delle Regioni (province maggiori e minori, strutture ospedaliere primarie e secondarie), è del tutto scontato che senza un “forte bilanciamento nazionale” le attuali disparità regionali sono destinate ad aggravarsi ulteriormente. Cosa succederà alle istituzioni sanitarie, alle strutture ospedaliere, al personale sanitario delle regioni/province/località più fragili e arretrate, in assenza di un controllo rigoroso dei LEA e di meccanismi di compensazione volti a ridurre il divario con quelle migliori e di un supporto solidaristico nel recupero e allineamento ai parametri medi nazionali? 

Il rafforzamento delle “politiche sanitarie” – che non possono che essere “nazionali” e talvolta “sovranazionali” (in presenza di fenomeni pandemici o di emergenze sanitarie transnazionali), come ci ha insegnato la terribile esperienza iniziale del COVID19 – impone un rafforzamento delle capacità di indirizzo e di controllo da parte dello Stato e delle Istituzioni Sanitarie Nazionali (Ministero Salute, Consiglio Superiore Sanità, Istituto Superiore Sanità, AGENAS, AIFA), avvalendosi del supporto delle Istituzioni di Ricerca (Ministero Università e Ricerca Scientifica), delle Società e Associazioni Scientifiche (in rappresentanza di tutti gli Operatori Sanitari), delle Organizzazioni di Pazienti e di Cittadini. I PDTA regionali e ospedalieri sono lo strumento fondamentale per la presa in carico dei pazienti e per la prevenzione nei soggetti sani: è scontato che ogni Regione debba decidere su “come” organizzare sul proprio territorio le politiche sanitarie e i percorsi delle varie patologie, ma non ha alcun senso che ogni Regione pretenda di decidere anche “quali” debbano essere le proprie politiche sanitarie, per ogni patologia, su cui andrebbe trovato un ampio consenso nazionale da parte di stakeholder nazionali e in collaborazione con i rappresentanti delle Regioni. Come saremmo usciti dalla emergenza sanitaria del COVID19 in presenza di 21 modelli sanitari diversi nella gestione della fase iniziale della pandemia (tamponi, regole di distanziamento sociale e di igiene personale) e di quella finale delle vaccinazioni (tipo di vaccini, criteri di priorità per classi di cittadini, ecc.)? Solo grazie ad una “cabina di regia condivisa” tra Istituzioni Sanitarie Centrali e Regioni è stato possibile ottenere il massimo del risultato in termini di efficacia e di efficienza, a beneficio di tutti i cittadini italiani e senza alcuna differenziazione. Anzi, benché molti se ne siano già dimenticati, tale recente esperienza aveva fatto emergere i limiti di un sistema sanitario eccessivamente frammentato, in prevalenza “ospedale-centrico”, con un peso eccessivo, specie nelle regioni più forti, degli operatori privati. E in un momento storico di “unità nazionale” (Governo Conte 2 e poi Governo Draghi), tutti i politici sostenevano la necessità di rafforzare il sistema sanitario nazionale e in particolare, al suo interno, il sistema pubblico come garante dei suoi principi costituzionali. 

Un’altra prova della carenza di un forte coordinamento centrale la si trova nella totale assenza, dal 2008, di un Piano Sanitario Nazionale (PSN), quello che avrebbe dovuto essere lo “strumento principe” della programmazione sanitaria del Paese. Il PSN è stato abbandonato nel dimenticatoio, a favore di strumenti di contrattazione tra Governi e Regioni, cui è affidata soprattutto la ripartizione delle risorse economiche destinate alla Sanità. Negli ultimi sedici anni lo scenario demografico (es. invecchiamento della popolazione), i bisogni di salute dei cittadini e la stessa offerta sanitaria sono profondamente cambiati e anche per tale motivo è indispensabile ripristinare un processo unitario di pianificazione sanitaria nel Paese, coinvolgendo tutti gli attori fondamentali, inclusi i pazienti e i cittadini e ovviamente le stesse Regioni.

Peraltro, un modello di governance sanitaria federalista – cioè con uno Stato forte e 21 Regioni/Province Autonome altrettanto forti, con ruoli e competenze complementari e non in concorrenza tra loro – consentirebbe di recuperare un valore oggi ampiamento disatteso dalla “regionalizzazione”: l’opportunità di un confronto trasparente, sistematico e organico sui dati sanitari – sia sulle prestazioni sia e soprattutto sul rapporto tra costi e risultati – in tutte le Regioni. Solo attraverso un processo di questo tipo si potranno identificare indicatori e pratiche più virtuosi (e quelli meno virtuosi), per perseguire un percorso di miglioramento continuo, che consenta a tutte le Aree geografiche del Paese di trarre benefico dalla esperienza degli altri. Peraltro, un tale “modello federalista” potrebbe anche favorire nel tempo, con opportuni meccanismi di incentivazione, una “mobilità di personale sanitario” (medici e infermieri) tra le varie regioni, al fine di contribuire alla riduzione degli eccessivi divari esistenti. Oggi più che mai in sanità contano le competenze professionali – nelle quantità e nelle qualità necessarie – e anche su questo fronte va definita una strategia di medio-lungo termine che non può essere lasciata ad ogni singola regione e che impone un’assunzione comune di responsabilità a livello nazionale.

Un maggiore equilibrio tra coordinamento centrale e regionalizzazione è alla base della stessa questione degli sprechi e delle inefficienze, che ormai va affrontata una volta per tutte, a maggior ragione in una situazione in cui il nostro Paese non potrà destinare crescenti risorse pubbliche alla sanità, per la forte situazione debitoria accumulatasi nel tempo e a cui la sanità a gestione prevalentemente regionale ha certamente contribuito in modo rilevante. La attesa digitalizzazione della sanità dovrebbe finalmente facilitare quanto finora non si è riusciti ad ottenere: il pieno utilizzo e la trasparenza (anche verso i cittadini) di tutti i dati sanitari disponibili, compresi i costi e i ricavi di ogni prestazione, presupposto per la pianificazione di ogni attività, a tutti i livelli del SSN e in tutte le sue articolazioni. Tale necessità si collega anche alla definizione e all’aggiornamento continuo dei LEA – l’evoluzione della ricerca e della pratica clinica impone un aggiornamento sistematico, non compatibile con il burocratico, lungo e inefficiente iter approvativo dell’attuale Commissione LEA – che avranno un ruolo ancora più rilevante nell’attuazione dei principi di universalismo, eguaglianza ed equità del SSN. I politici e amministratori regionali disporranno in tal modo di strumenti di pianificazione e controllo della spesa adeguati ai tempi, di grande utilità per lo svolgimento del proprio ruolo, con i quali potranno rispondere alla domanda di trasparenza dei cittadini che li hanno eletti.

Nel miglioramento dell’efficacia ed efficienza del SSN e dei SSR può contribuire anche un rapporto chiaro e collaborativo tra operatori pubblici e privati. Una premessa: in un sistema sanitario universalistico la governance deve essere saldamente nelle mani dei soggetti pubblici istituzionali: lo Stato, il Parlamento, il Ministero Salute, le Regioni. Il ruolo del privato è fondamentale per poter creare un sistema più concorrenziale nella organizzazione e gestione delle prestazioni, ma ciò impone regole del gioco chiare e cristalline. In particolare, è assolutamente comprensibile che il sistema tariffario delle prestazioni erogabili dai privati in convenzione con il SSN sia congruo e consenta agli operatori privati un “giusto profitto”. Ad es. nelle attività diagnostiche (esami di laboratorio, diagnostica per immagini) e in molte attività chirurgiche ci sono ormai strutture private di eccellenza in diverse regioni italiane, senza le quali le strutture pubbliche non sarebbero in grado di soddisfare tutte le esigenze dei cittadini. Altro è consentire alle strutture private convenzionate di scegliere – ovviamente sulla base della sola convenienza economica – quali prestazioni svolgere e quali no per il SSN. La collaborazione pubblico-privato non può prevedere che al pubblico rimangano le sole prestazioni “in perdita” e al privato solo quelle “in utile”: è necessario, sia a livello nazionale e successivamente a livello regionale, definire delle nuove regole di ingaggio, in modo che il privato possa contribuire effettivamente al sistema sanitario nazionale, ricavando un giusto profitto ma senza i privilegi che gli sono stati finora concessi, specie in alcune Regioni. E ciò a prescindere dai casi di malasanità e malaffare di cui spesso si è dovuta occupare la Magistratura. Anche la criticità dei tempi di attesa per esami e prestazioni sanitarie potrà essere risolta più agevolmente con una nuova collaborazione pubblico-privato, attraverso l’unificazione dei CUP regionali, oggi separati tra “solventi/sanità integrativa” e “non solventi/ssn”. L’auspicio è che anche su questo tema emerga una “visione nazionale” che superi punti di vista e interessi locali e che guardi in primo luogo all’interesse di tutti i cittadini, a prescindere dalla loro regione di residenza.

La Fondazione Mutagens ovviamente partecipa a tale dibattito e ai diversi tavoli in cui vengono affrontati problemi e cercate soluzioni a queste e altre questioni rilevanti per la salute dei cittadini, che si riflettono a cascata anche nell’ambito che ci compete, cioè il miglioramento della presa in carico clinica e il rafforzamento della ricerca scientifica nell’ambito delle sindromi ereditarie. Per alcuni versi la nostra popolazione di portatori di alterazioni genetiche è un “concentrato” di diversi temi rilevanti per il nostro sistema sanitario nel suo complesso. L’auspicio è che anche per tale motivo tali soggetti, affetti e sani a rischio di malattia, possano essere considerati una sorta di “gruppo pilota” su cui andare a sperimentare soluzioni innovative su piccola scala (in fondo siamo poco più di un milione di soggetti, in prevalenza sani anche se ad alto rischio), che nel tempo potranno essere estese anche ad altri pazienti e agli stessi cittadini sani, per attuare protocolli terapeutici sempre più precisi e protocolli di prevenzione sempre più personalizzati. 

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