Tumore al seno: estensione dei test genetici germinali

Pubblicate le nuove raccomandazioni ASCO per ampliare la schiera di donne con cancro mammario da sottoporre alle analisi genetiche sulla linea germinale, cosa che potrebbe avere importanti ricadute su diagnosi e terapie

Un pannello di esperti della Società americana di oncologia medica (ASCO) e della Società di chirurgia oncologica (SSO) ha redatto di recente delle nuove raccomandazioni sui criteri di accesso ai test genetici della linea germinale nelle pazienti con cancro al seno. Le nuove raccomandazioni, pubblicate sulla rivista Journal of Clinical Oncology, prevedono innanzitutto che i test genetici sul sangue per le mutazioni nei geni di suscettibilità BRCA1 e BRCA2 siano offerti a tutte le pazienti con nuova diagnosi di tumore mammario fino ai 65 anni di età (rispetto ai 40 anni come avviene oggi in Italia) e in alcuni casi specifici anche oltre tale età, in relazione alla storia personale/familiare suggestiva di predisposizione ai tumori o di idoneità a terapie personalizzate, in particolare con i PARP inibitori. Inoltre in alcuni casi potrebbe essere utile proporre anche l’analisi di altri geni di predisposizione al tumore al seno.

Analizziamo le nuove raccomandazioni con Maurizio Genuardi, presidente AIFET (Associazione italiana familiarità ereditarietà tumori) oltre che professore ordinario di Genetica medica all’Università Cattolica e direttore dell’Unità operativa complessa di Genetica medica della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS di Roma, e riportiamo il pensiero della SIGU (Società italiana di genetica umana) per voce di Emanuela Lucci Cordisco, coordinatore del Gruppo di lavoro Genetica oncologica, genetista medico e ricercatore dell’Università Cattolica di Roma nonché dirigente medico presso il Policlinico Gemelli IRCSS di Roma

Maurizio Genuardi

Il criterio dell’età

Se si ampliano le indicazioni cliniche all’esecuzione dei test genetici aumenta la possibilità di identificare persone portatrici di varianti patogenetiche ad alto rischio in geni di predisposizione.

«Ormai sappiamo bene da tempo che non tutti gli individui che sono portatori di queste varianti vengono identificati utilizzando gli attuali criteri selettivi basati su una maggiore probabilità legata alla presenza di indicatori di alto rischio – premette Genuardi -. L’ASCO-SSO ha individuato una soglia di 65 anni come uno dei criteri più universalmente utilizzabili per l’accesso al test genetico, tenendo conto della probabilità di individuare soggetti positivi al test e del fatto che oggi le tecnologie sono diventate più veloci, in termini di esecuzione, e più economiche. In linea di principio e ad un’analisi sommaria dei dati, il beneficio sembra valer la pena dell’esecuzione di un numero maggiore di test».

Altri fattori da considerare

L’algoritmo per l’individuazione delle donne da sottoporre ai test genetici proposto nelle nuove raccomandazioni non considera solo l’età di 65 anni per l’accesso, ma tiene conto anche di altri indicatori. «L’età è il criterio principale perché una discreta fetta del totale delle donne che ha un tumore mammario lo sviluppa sotto i 65 anni. Ma le linee guida segnalano anche altri criteri che riguardano frazioni minori di donne che sono affette da tumore al seno nonché una frazione particolare che è quella delle donne con tumore al seno metastatico, le quali possono trovare beneficio da terapie target se risultano positive per alterazioni dei geni BRCA Il concetto che emerge è che occorre comunque ottimizzare l’individuazione delle persone ad alto rischio e che sopra i 65 anni, per ora, la resa è troppo bassa. Quindi per il momento non vale la pena estendere il test oltre quell’età, se quello è l’unico indicatore presente».

Emanuela Lucci Cordisco

La sostenibilità

«L’espansione del test genetico a tutte le donne che hanno meno di 65 anni pone delle sfide in termini di carico di lavoro per i laboratori e i servizi clinici collegati, a partire dalla consulenza genetica. Il numero dei test da eseguire andrebbe infatti più che a raddoppiare, ponendo anche un problema di sostenibilità» fa notare Genuardi.

Sulla stessa linea è il pensiero della SIGU. «Se anche nel nostro Paese sarà offerto un numero così massiccio di test servirà trovare un giusto compromesso tra l’aumento della soglia di età e il carico di lavoro dei laboratori – osserva Lucci Cordisco -. Questo aspetto indicato dall’ASCO pone la necessità di una riflessione a livello europeo e in ogni singolo paese per verificare la possibilità di applicazione di questi grandi numeri a seconda delle peculiarità dei diversi sistemi sanitari nazionali. La sfida per i genetisti che emerge da questo lavoro è, a nostro avviso, l’aumento del carico di lavoro dei laboratori e delle richieste di consulenza genetiche».  

Il nodo della consulenza genetica

Per proporre il test genetico germinale occorre che le persone siano adeguatamente informate. Come sottolineato nelle raccomandazioni ASCO-SSO, i pazienti devono comprendere tutte le implicazioni del test genetico e firmare un consenso informato, motivo per cui va prevista una consulenza prima e dopo l’esecuzione dell’esame sul sangue. Nel counseling pre-test vanno condivise le implicazioni dell’analisi genetica, i possibili risultati, i suoi limiti e la utilità clinica con le implicazioni personali e familiari. Nel counseling post-test vanno discussi i risultati, i rischi ad essi associati, le modalità di prevenzione e le indicazioni per i familiari. «L’ASCO stessa si rende conto che, anche negli USA, c’è una carenza di genetisti e che per far fronte all’aumentata richiesta bisognerebbe ricorrere anche a servizi di telemedicina e materiali video. Ma, anche implementando questi servizi, non si può prescindere da un colloquio diretto con il genetista» osserva Genuardi.

Il ruolo dei genetisti e l’importanza della formazione

Come sottolinea anche la SIGU, nel nostro paese attualmente non ci sono abbastanza genetisti, senza contare che per eseguire la consulenza in ambito oncologico non si può prescindere da un training specifico. «Aumentando il numero dei test, aumenta il problema della consulenza genetica e dell’offerta di informazioni sull’esame, prima e dopo la refertazione» osserva Genuardi.

«Con un utilizzo massiccio di test oncologici serviranno molti più genetisti formati in ambito oncologico, che approfondiscano anche la conoscenza delle terapie oggi a disposizione in un continuo percorso di aggiornamento. In Italia la storia del genetista medico in campo oncologico è più che ventennale, perciò è una sfida che ci sentiamo di accogliere» dichiara Lucci Cordisco a nome della SIGU. 

Le implicazioni sui familiari e sulla sorveglianza

Il test genetico germinale è diverso dagli altri test eseguiti durante il percorso di cura della paziente con tumore mammario. «Non ha solo importanza per la terapia del cancro della mammella, ma può identificare un rischio di poter sviluppare altri tumori non solo dei/delle pazienti ma anche per alcuni loro familiari – sottolinea Lucci Cordisco -. Inoltre, identificarlo può portare alla programmazione di una modalità di prevenzione adeguata all’aumentato rischio».

Tuttavia esiste anche il rischio di un eccesso di cautela che va considerato, come fa notare Genuardi. «Se noi facciamo il test a persone che hanno caratteristiche cliniche relativamente poco suggestive di una predisposizione ereditaria al cancro e troviamo un’alterazione genetica, per default applichiamo e forniamo le indicazioni di sorveglianza e prevenzione che sono contenute nelle varie linee guida per i soggetti ad alto rischio eredo-familiare. Però è possibile che la variante genetica identificata, in quello specifico setting familiare e ambientale, abbia degli effetti più mitigati, e questo non lo sappiamo allo stato attuale. Il rischio è quindi quello che in alcuni casi vi sia un eccesso di sorveglianza/prevenzione (“sovra-sorveglianza”)».

Il peso sulla sanità pubblica

Le raccomandazioni ASCO-SSO aprono dunque la strada a un ampliamento notevole dell’accesso ai test genetici in oncologia, ma passare dalla teoria alla pratica richiederà attente valutazioni, a maggior ragione se si considera che le due società statunitensi operano in un contesto sanitario essenzialmente privatistico, mentre in Europa, e in Italia in particolare, prevale un servizio sanitario pubblico, dove le risorse sono limitate. Proprio per questo motivo c’è una grande attesa su come potrebbero essere recepite le raccomandazioni dalla Società europea di oncologia medica (ESMO) e poi in Italia.

Antonella Sparvoli

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