L’attuazione e il miglioramento dei PDTA per un sistema sanitario più universalistico, accessibile, equo e sostenibile

I Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PDTA) sono modelli gestionali e organizzativi che definiscono l’iter complessivo clinico e assistenziale, cioè l’insieme di processi, attività, attori, input/output e responsabilità, riferibili ad una specifica patologia. Il PDTA descrive il “cammino” che un paziente dovrebbe compiere tra una o più aziende sanitarie (patient journey) e definisce la migliore sequenza di attività e azioni necessarie per il raggiungimento degli obiettivi di salute a priori identificati. Ciò è reso possibile dalla contestualizzazione ai vari livelli (regionale, provinciale, ospedaliero, territoriale) delle linee guida e delle raccomandazioni internazionali e nazionali e delle più recenti evidenze scientifiche e cliniche per quella specifica patologia.

I PDTA nascono con l’obiettivo di migliorare la qualità dell’assistenza, ridurre la variabilità clinica, garantire equità e appropriatezza dei percorsi di cura e di prevenzione. La standardizzazione dei percorsi di cura, in un sistema sanitario universalistico su base pubblica come quello italiano ma con un forte decentramento della governance sanitaria alle 21 regioni/province autonome, è fondamentale per:

  • offrire un riferimento chiaro di gestione clinica e amministrativa per i professionisti e i manager sanitari;
  • evitare o ridurre le difformità territoriali e individuali nelle attività e nelle decisioni cliniche;
  • fornire ai pazienti le informazioni necessarie per il loro consenso alle cure e il coinvolgimento attivo nei percorsi, sia all’interno delle strutture ospedaliere sia presso proprio domicilio (continuità assistenziale).

All’interno di strutture sanitarie e ospedaliere fortemente specializzate per competenze e spesso organizzate “a silos dipartimentali” il PDTA consente, attraverso una visione complessiva della presa in carico, il superamento dei “compartimenti stagni”, rafforzati peraltro da un modello burocratico/amministrativo che privilegia il costo della singola prestazione (DRG, raggruppamento omogeneo di diagnosi per gli ospedali e tariffe LEA, Livelli Essenziali di Assistenza, per la prevenzione e l’assistenza territoriale) nel sistema di rimborso alle strutture pubbliche e a quelle private in convenzione.

I PDTA, di conseguenza, dovrebbero facilitare il dialogo tra i professionisti sanitari (medici e personale infermieristico e ausiliario) e quelli manageriali/amministrativi, grazie alla rilevazione degli indicatori di salute e dei dati di costo di tutte le attività, che consente ogni possibile valutazione tra costi e benefici. Il PDTA non è un modello statico, ma dinamico e permette di cogliere in ogni momento cosa sta accadendo nei processi e nelle attività, per riorientare i comportamenti nel sistema e perseguire un miglioramento continuo dei risultati: sia negli esiti di salute sia nella riduzione e ottimizzazione dei costi (rapporto costi/benefici). 

Non solo: i PDTA dovrebbero facilitare il coinvolgimento nei percorsi clinici e organizzativi anche dei pazienti e delle associazioni di pazienti. Infatti, tale coinvolgimento, oltre ad avere una valenza etica e informativa, ha dimostrato di poter incidere in modo significativo sulla qualità delle cure sia nelle fasi acute delle patologie sia nella gestione dei follow-up. I pazienti possono essere informati con varie modalità e strumenti (relazione medico-paziente, materiale informativo, app digitali) e se più consapevoli diventano un valore aggiunto per l’efficacia dei percorsi. Diventano addirittura determinanti per migliorare l’aderenza alle cure, specie di quelle effettuate presso il proprio domicilio, oltre che per la prevenzione (diagnosi precoce in fase iniziale o di ritorno di malattia).  In verità, il coinvolgimento dei pazienti nei PDTA, a livello regionale, di area territoriale e ospedaliero, non è ancora una pratica abituale e diffusa nel nostro sistema sanitario, benché la normativa nazionale e regionale lo stia gradualmente prevedendo e formalizzando, attraverso la loro presenza nei diversi organismi di governance. D’altra parte, la prospettiva di una medicina sempre più personalizzata e meno standardizzata impone non soltanto un maggiore ascolto del paziente (non è scontato che lo stesso intervento o la stessa terapia producano i medesimi effetti diretti e collaterali in soggetti diversi), ma la costruzione di percorsi terapeutici e di follow-up sempre più “su misura” per classi di pazienti e talvolta per singoli pazienti. 

I PDTA acquistano un’importanza ancora maggiore nelle malattie croniche non trasmissibili, che rappresentano la parte maggioritaria dei costi dei sistemi sanitari, per i quali occorre garantire una sostenibilità di lungo termine, essendo in caso contrario a rischio la salute e la vita di tutti i cittadini, specie di quelli più fragili economicamente e socialmente. In particolare, nell’oncologia, dove la maggior parte dei costi sono sostenuti all’interno del sistema pubblico (ospedali pubblici e privati convenzionati) tale pratica costituisce una soluzione obbligata nella gestione dei tumori, in grado di:

  • garantire un’equità e uniformità nella diagnosi e nella cura, sia a livello nazionale sia all’interno delle singole regioni e strutture ospedaliere;
  • perseguire una gestione per processi (e non per singole prestazioni) e di un modello organizzativo multidisciplinare (e non basata sul singolo specialista);
  • misurare le prestazioni, sia dal punto di vista degli output (esiti di salute, mortalità, sopravvivenza libera da malattia, qualità della vita, ritorni di malattia) sia delle risorse impiegate (prestazioni mediche, infermieristiche, farmaci/terapie, assistenza, vitto e alloggio, costi accessori);
  • recepire e implementare le continue innovazioni (diagnostiche, chirurgiche, terapeutiche) derivanti dalla ricerca, dalle sperimentazioni cliniche, dalle best practice e dalle evidenze cliniche rese disponibili dalla comunità clinica e scientifica nazionale e internazionale.

Una particolare rilevanza dei PDTA risiede nel favorire un approccio multidisciplinare nei processi clinici. Il valore aggiunto della multidisciplinarietà, da integrare alla specializzazione delle competenze, emerse una ventina di anni fa quando alcuni clinici scoprirono come l’interdipendenza tra conoscenze diverse fosse determinante per ottenere l’esito di salute atteso. Uno dei casi più significativi a tale riguardo è sicuramente quello delle Breast Unit o Centri di Senologia che dimostrano come la combinazione di numeri elevati di pazienti simili per ogni centro (almeno 150 donne all’anno trattate con carcinoma al seno) e la presenza di gruppi multidisciplinari specializzati riduca sensibilmente la mortalità, migliori l’efficacia delle cure e allo stesso tempo consenta di ottimizzare i costi sanitari per singolo paziente. Ad esempio, nelle Breast Unit per la prima volta nelle strutture ospedaliere:

  • viene attuata in modo strutturato la comunicazione medico-paziente;
  • si inseriscono le figure dell’infermiera di senologia (case manager) – che prende per mano la paziente e la guida nel percorso di cura – e del data manager (raccolta e analisi informatica dei dati in ogni fase e attività)
  • si adotta il controllo sistematico dei risultati con valutazioni interne o esterne alla struttura ospedaliera;
  • si sottolinea ed evidenzia l’importanza dei professionisti (chirurghi, oncologi, anatomo-patologi, radiologi, ecc.) che si dedicano totalmente o in prevalenza ai tumori mammari;
  • si valorizza il ruolo del paziente, delle organizzazioni dei pazienti e del volontariato oncologico nel miglioramento dei percorsi diagnostici, terapeutici e preventivi.

Il modello multidisciplinare gradualmente si sta introducendo con gli opportuni adattamenti anche in altre patologie oncologiche, ad es. nelle Pancreas Unit, nelle Unità di Oncologia Gastro-intestinale e in quelle di Oncologia Ginecologica e Urogenitale. D’altra parte l’oncologia sta attraversando negli ultimi anni un cambiamento epocale: dal modello tradizionale istologico  – identificazione dell’istotipo tumorale e scelta della chemioterapia più adeguata tra poche opzioni relativamente standard – stiamo passando al nuovo modello mutazionale, che presuppone una diagnosi a livello molecolare del tumore e un percorso terapeutico (chirurgico e oncologico) sempre più articolato, nel quale sono coinvolte diverse professionalità: oncologo medico, radioterapista e chirurgo, genetista clinico e di laboratorio, anatomo-patologo, biologo molecolare, bioinformatico, radiologo e nuclearista, data manager, farmacologo ospedaliero, senza le quali difficilmente si può pervenire alla cura più adeguata. Nei casi più complessi di tumore (farmacoresistenza, esaurimento delle opzioni terapeutiche, malattia metastatica, ritorno di malattia) sono stati costituiti di recente, a livello regionale, i Molecular Tumor Board che grazie alla presenza di esperti con competenze altamente specifiche e differenziate e all’utilizzo di tecniche diagnostiche avanzate (test NGS somatici e genetici), sono in grado di offrire risposte che sarebbero state impensabili nel modello tradizionale. 

Anche per assecondare tale evoluzione in atto sono state create, pur in modo non omogeneo nelle modalità organizzative e nelle tempistiche, le Reti Oncologiche Regionali, cui è stato demandato il compito di una Pianificazione e di un Coordinamento dei percorsi oncologici all’interno delle diverse strutture sanitarie presenti nel territorio, in modo da favorire una migliore armonizzazione delle cure e un’ottimizzazione e condivisione delle risorse sanitarie. Ciò che è colpevolmente mancata finora, all’interno del nostro sistema sanitario, è una “governance nazionale” di tale processo, che certamente avrebbe consentito maggiori sinergie e una migliore uniformità nello sviluppo delle Reti Oncologiche. Inoltre, con lo sviluppo dei Molecular Tumor Board regionali, solo la creazione di una piattaforma unica nazionale di raccolta di dati genomici e clinici potrà consentire di accumulare nel tempo, grazie all’Intelligenza Artificiale, le conoscenze necessarie per un miglioramento continuo delle strategie diagnostiche e terapeutiche.

Un’altra criticità del nostro modello sanitario è la sua natura “ospedale-centrica”, che ha impoverito gradualmente sia il ruolo della programmazione sanitaria a livello regionale sia e soprattutto l’integrazione tra gli ospedali e la medicina territoriale. Tale necessità, su cui ultimamente la normativa post-Covid sta cercando di intervenire, risulterà decisiva per:

  • garantire la continuità assistenziale delle cure in tutto il percorso del paziente, che solo in momenti specifici e limitati (malattia acuta, alta diagnostica, chirurgia oncologica di alto livello, terapie oncologiche) vengono attuate all’interno delle strutture ospedaliere, per la necessità di ottenere il miglior rapporto tra costi e intensità delle cure/prestazioni;
  • veicolare un maggiore investimento di risorse nella prevenzione primaria e secondaria (diagnosi precoce), senza la quale difficilmente la spesa complessiva in oncologia sarà sostenibile nei prossimi anni, a causa dell’invecchiamento progressivo della popolazione;
  • rafforzare la medicina di popolazione, con un approccio “proattivo” alla salute, che miri a promuovere il benessere di tutta la cittadinanza e non ad occuparsi solo dei malati, i quali avranno necessariamente bisogno di prestazioni più specialistiche ed intensive che solo le strutture ospedaliere possono erogare al meglio.

Nell’ambito dell’oncologia i PDTA Eredo-Familiari si caratterizzano oggi per una forte specificità: i portatori di sindromi ereditarie – oltre 1.250.000 persone in Italia, benché meno del 10% di essi siano stati ad oggi identificati tramite test genetico – costituiscono un segmento di popolazione di grande interesse clinico e scientifico per la cura e la prevenzione dei tumori. In primo luogo, essere portatori di una variante patogenetica di predisposizione ai tumori, pur comportando un rischio elevato di malattia nell’arco della vita – ad es. oltre il 70% per il cancro alla mammella nelle donne con una variante patogenetiche BRCA1, rispetto al 12,5% della popolazione normale oppure oltre il 60% per il cancro al colon-retto nei portatori della sindrome di Lynch, rispetto al 4% della popolazione normale – non implica una certezza di malattia a livello individuale. Di conseguenza, i soggetti portatori, se fossero tutti identificati da sani (o lo fossero in misura molto maggiore di quanto si faccia oggi) potrebbero essere inseriti in percorsi di prevenzione primaria (chirurgica e farmaco-terapica) e secondaria (sorveglianza intensificata ai fini della diagnosi precoce) in grado di evitare/ridurre le malattie e diminuire la mortalità. Inoltre, i pazienti affetti con sindromi ereditarie potrebbero in misura più ampia di quanto avvenga oggi, accedere a terapie sempre più personalizzate ed efficaci (PARP inibitori, immunoterapia) e per le quali a medio termine si intravede la prospettiva affascinante dei vaccini terapeutici e preventivi a mRNA. Oggi, purtroppo, i malati non identificati come portatori vengono curati con le stesse opzioni terapeutiche dei tumori sporadici, privandoli dei farmaci innovativi già disponibili. E’ per tale motivo che poco più di un anno fa ASCO e SSO (società scientifiche USA) hanno raccomandato di estendere i test genetici alle donne con cancro al seno da sotto i 40 anni fino ai 65 anni – tale soluzione non potrà essere realizzata così facilmente e in poco tempo in un sistema sanitario universalistico e pubblico come il nostro – per cercare di intercettare  un maggior numero di donne che possano beneficiare di tali opportunità e, a cascata, un maggior numero di familiari portatori sani da avviare alla prevenzione. L’utilità clinica ed economica di un tale modello di intervento è confermata dalla evidenza che nei soggetti ad alto rischio genetico l’età media di insorgenza dei tumori è molto inferiore a quella della popolazione normale (10, talvolta anche 15-20 anni prima), per cui gli esiti di salute e la riduzione dei costi delle cure sarebbero altamente favorevoli.

La Fondazione Mutagens è impegnata fin dalla sua nascita in questo ambito specifico delle sindromi ereditarie: dalle più note, come HBOC-BRCA e LYNCH, a quelle più RARE. Negli ultimi mesi, grazie alla collaborazione con i nostri partner istituzionali, abbiamo elaborato un piano organico di sanità pubblica, denominato PREVEN-ERE (PREVENzione e Medicina di Precisione nei Portatori di Sindromi EREditarie) che, partendo dalla presa in carico dei soggetti affetti (PDTA regionali e ospedalieri, accesso ai test somatici e genetici a fini terapeutici e di identificazione dei portatori e dei loro familiari), possa poi trasferirsi sui soggetti sani ad alto rischio, cui offrire programmi di sorveglianza anticipati e personalizzati simili a quelli degli screening di popolazione. Abbiamo in corso diverse interlocuzioni a vari livelli e con diversi stakeholder, per poter realizzare degli studi pilota, in alcune regioni, province e strutture ospedaliere, volti a sperimentare e validare tali approcci, inclusa la maggiore integrazione tra strutture ospedaliere e medicina territoriale ai fini della prevenzione. In parallelo, nei Centri Ospedalieri Riconosciuti, stiamo dialogando con i referenti clinici e manageriali, per rendere sempre più efficaci ed efficienti i PDTA aziendali, sia sulla parte strettamente clinica sia su quella organizzativa e manageriale, mediante l’applicazione dei modelli gestionali più evoluti: Programma Nazionale Esiti, PREMs e PROMs, Value Based HealthCare. Siamo fiduciosi che la messa a regime e la diffusione di PDTA Eredo-Familiari possa costituire una formidabile opportunità di salute per la nostra popolazione e diventare un modello di politica sanitaria trasferibile anche ad altri soggetti ad alto rischio, per i quali la prevenzione potrà diventare la leva fondamentale per la riduzione del carico di malattie e dei costi per il sistema sanitario nazionale.

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