Case di Comunità: l’interesse dei cittadini e del SSN per il rilancio della medicina territoriale e la riforma della medicina generale

L’esperienza drammatica del Covid-19 ha reso evidente di recente il fallimento di un modello di assistenza sanitaria basato prevalentemente sugli ospedali e oggi del tutto inadeguato:

  • ad arginare il ricorso ingiustificato ai Pronto Soccorso per le carenze di altre strutture di primo intervento;
  • ad affrontare il maggior carico di patologie croniche provocato dall’invecchiamento della popolazione e dall’aumento di altri fattori di rischio (alimentazione insana, abuso di alcool, scarsa attività fisica);
  • a garantire la continuità assistenziale tra ospedali e territorio (prima, durante e dopo il ricovero);
  • ad affiancare la medicina di prevenzione a quella di attesa nella diagnosi e la cura delle patologie acute e croniche.

La soluzione da tutti evocata e condivisa è il rilancio della medicina territoriale in una chiave più moderna ed evoluta rispetto al vecchio modello del “medico di famiglia”: questa figura in passato costituiva l’asse portante del nostro sistema sanitario, con una presenza capillare su tutto il territorio nazionale e un servizio di assistenza che arrivava anche al domicilio del paziente, in caso di necessità ed urgenza. Oggi sul territorio non è più sufficiente il piccolo ambulatorio del passato: occorrono servizi attrezzati e integrati nella diagnostica e nelle visite di primo livello, gestiti da personale medico e infermieristico con competenze qualificate e differenziate. A ciò si aggiunge che negli anni il carico amministrativo e burocratico dei MMG (Medici di Medicina Generale), per l’adempimento formale di procedure sempre più complesse, ha ridotto progressivamente il tempo per l’ascolto e la cura dei pazienti, insieme a quello dedicato alla formazione e all’aggiornamento professionale. Non a caso a molti MMG si addebita di essere diventati dei “prescrittori di impegnative”, mentre la visita medica è spesso un’eccezione sbrigativa. Di conseguenza, pur rimanendo i circa 40.000 MMG i terminali del nostro SSN, il loro status giuridico di lavoratori autonomi convenzionati, la loro professionalità e il loro modello organizzativo/gestionale non si sono evoluti nel tempo, come è invece avvenuto all’interno delle strutture ospedaliere, pubbliche e private. In queste ultime oggi viene garantita una qualità e intensità di cura mediamente buona, in molti casi eccellente (IRCCS e Aziende Ospedaliere Universitarie), ma giustificabile in termini di sostenibilità economica solo per le fasi acute e croniche di malattie davvero severe. Il bisogno di salute dei cittadini, però, non è soddisfatto esclusivamente dall’alta diagnostica, da sofisticati interventi chirurgici e dall’accesso a terapie complesse e innovative, nel rispetto di protocolli condivisi con la comunità scientifica e clinica nazionale e internazionale. In primo luogo, la maggior parte delle patologie richiede un percorso di cura molto lungo, che non può essere svolto totalmente all’interno delle strutture ospedaliere ma che andrebbe delegato in parte al territorio, anche per ridurre la mobilità nazionale, regionale e provinciale dei pazienti, con servizi il più possibile vicini al luogo di residenza. In secondo luogo, la salute e il benessere fisico e mentale dei cittadini dipendono anche dalla prevenzione, che può consentire di scongiurare diverse patologie o perlomeno di ridurne l’impatto grazie alla diagnosi precoce e alla procrastinazione di trattamenti medici più invasivi, per i quali necessariamente ci si dovrà rivolgere ad un ospedale.


Va precisato che la scelta del nuovo modello di medicina territoriale è ormai già stata compiuta dal nostro Paese: grazie ai fondi del PNRR entro il 2026 dovranno essere realizzate in Italia oltre 1.300-1400 Case di Comunità (CdC), una ogni 40-50.000 abitanti, un’evoluzione delle Case della Salute, già presenti, benché in modo frammentato e disomogeneo, in diverse regioni. Alle nuove CdC sono destinati ben 2.000 miliardi del totale dei 7.000 miliardi stanziati per la sanità territoriale. Le CdC sono “il luogo fisico di facile individuazione al quale i cittadini possono accedere per i loro bisogni di assistenza sanitaria e socio-sanitaria”, dovendo diventare nel tempo “il punto di riferimento per il cittadino e il modello organizzativo dell’assistenza di prossimità per la popolazione di riferimento”. Le finalità delle CdC sono numerose e molto ambiziose:

  • agevolare la presa in carico della persona, mediante un approccio multidisciplinare;
  • valutare tempestivamente il bisogno della persona e accompagnarla alla risposta più appropriata;
  • attivare percorsi di cura basati sull’integrazione tra servizi sanitari, ospedalieri e territoriali (ATS, ASL);
  • ridurre il ricorso alle strutture ospedaliere, favorendo la cura delle persone a livello locale.

Il modello organizzativo/gestionale delle Case di Comunità prevede diverse aree di servizi:

  • un punto unico di accesso, servizi amministrativi e un sistema integrato di prenotazione collegato al CUP (Centro Unico di Prenotazione);
  • assistenza primaria e continuità assistenziale, a cura dei MMG e pediatri per i bambini; servizi infermieristici e un’area dedicata alla continuità assistenziale h. 24 (Guardia Medica);
  • specialistica ambulatoriale e diagnostica di base;
  • prevenzione (informazione e supporto);
  • integrazione con i servizi sociali e le comunità di riferimento (associazioni di pazienti e di volontariato, terzo settore).

L’attività delle CdC deve essere organizzata per permettere un lavoro d’equipe tra MMG, pediatri di libera scelta, specialisti di ambulatori interni (cardiologo, internista, senologo, urologo, diabetologo, ecc.), infermieri di famiglia e altri professionisti sanitari (psicologi, ostetrici, igienisti e medici di prevenzione, fisiatri ed esperti di riabilitazione, assistenti sociali). A tutte queste figure si aggiunge il personale amministrativo, che si occupa delle relazioni con il pubblico e degli adempimenti burocratici, liberando il personale sanitario di tempo prezioso da dedicare ai pazienti. Risulta evidente che senza i MMG le CdC rimarrebbero delle “scatole vuote”, vanificando le risorse del PNRR finora investite, che andrebbero oltretutto restituite all’Europa per le mancate aperture. La forte carenza dei MMG – si stimano necessarie oltre 5.000 unità nei prossimi anni, tenendo conto dei pensionamenti – è già un dato certificato, benché ad oggi solo una quota minoritaria delle CdC previste (circa il 30’%) sono state aperte, pur con servizi non ancora completi, a causa delle carenze di personale. Ricordiamo che tale voce di spesa non è coperta dai fondi del PNRR, per cui il Governo e il Parlamento avrebbero dovuto provvedere separatamente.

Questa situazione è apparsa critica quando, per le difficoltà di reclutamento in alcune regioni dei MMG e pediatri disponibili a lavorare nelle CdC, si è aperto un acceso dibattito sul possibile cambiamento dello status giuridico dei MMG: da lavoratori autonomi liberi professionisti a dipendenti regionali del SSN, similmente ai loro colleghi ospedalieri. Come spesso succede nel nostro Paese, si sono immediatamente contrapposte le due tifoserie (mantenimento dello status quo o passaggio al rapporto di dipendenza), senza il dovuto approfondimento sulle reali esigenze del nostro Sistema Sanitario e dei cittadini che lo sostengono con le loro imposte. E’ scontato che dietro le resistenze di molti MMG e di alcune loro sigle sindacali ci sia la volontà di tutelare l’autonomia e i privilegi di una condizione “ibrida”: rapporto libero professionale, pazienti/clienti garantiti, compensi a carico del SSN. Peraltro, da taluni è stato alimentato il sospetto che il mantenimento dello status giuridico attuale possa favorire nel tempo la creazione di una rete parallela di CdC private, in concorrenza con quelle pubbliche. Ovviamente una tale prospettiva sarebbe pericolosa, in quanto andrebbe ad indebolire ulteriormente una componente pubblica del servizio sanitario, che soffre da tempo di carenza di risorse e di inadeguatezza gestionale e organizzativa. Una soluzione possibile, avanzata di recente anche dal Ministro della Salute, è quella di un compromesso tra le due opzioni: con un sistema misto si potrebbe offrire una risposta immediata alle esigenze urgenti delle CdC e avviare il percorso per l’integrazione tra ospedali e territorio. Ad esempio, prevedendo il mantenimento degli attuali MMG autonomi convenzionati (specie tra coloro con una maggiore anzianità di servizio, meno disposti a diventare dipendenti) e salvaguardando la loro presenza capillare sul territorio. In parallelo, creando nuovi MMG dipendenti (specie tra i più giovani) che operino a tempo pieno o quasi pieno all’interno delle Case di Comunità, con un ruolo ben definito e soggetto ad una più efficace ed efficiente programmazione sanitaria da parte di Regioni, ATS e ASL. I nuovi MMG delle CdC potrebbero diventare nel tempo l’auspicato anello di congiunzione tra ospedale e territorio, svolgendo alcune funzioni chiave:

  • filtrare le richieste di ricovero differibili, riducendo il sovraccarico dei Pronto Soccorso e ottimizzando l’accesso ai reparti ospedalieri;
  • creare percorsi specifici per la gestione delle cronicità, con un monitoraggio più efficace e integrato rispetto all’attuale separazione tra MMG e specialisti ospedalieri;
  • promuovere protocolli e linee guida di medicina generale, elaborate dai MMG per i MMG, per migliorare l’appropriatezza terapeutica e la sostenibilità complessiva del sistema;
  • diventare un punto di raccordo tra Aziende Ospedaliere, ospedali e territorio, ponendo le basi per la formazione dei futuri Medici di Medicina Generale, verso una nuova specializzazione ad hoc, indispensabile per adeguare le professionalità e competenze alle sfide della medicina moderna.


In conclusione, l’inserimento delle Case di Comunità in un modello integrato di Sanità Pubblica tra ospedali e territorio potrebbe rappresentare l’occasione storica per rilanciare la medicina generale come una disciplina di grande valore per la salute dei cittadini. La specializzazione, in medicina come in altri campi del sapere, è importante per l’approfondimento delle conoscenze e delle competenze, ma deve essere accompagnata da una visione interdisciplinare, che mantenga al centro l’ascolto e la visione del paziente nella sua interezza. All’attuale focalizzazione sulla specifica patologia va aggiunta quella sulla salute complessiva del paziente e della persona sana, che impone un approccio integrato e multidisciplinare. Inoltre, i MMG delle CdC potrebbero contribuire a colmare l’enorme gap esistente nella Medicina di Prevenzione, apportando un valore aggiunto alla salute dei cittadini e nello stesso tempo alla sostenibilità del nostro Sistema Sanitario. Di fronte a questioni così rilevanti ed urgenti, la Politica e l’Amministrazione Sanitaria, a livello nazionale e regionale, sono chiamati a prendere decisioni chiare e rapide: gli interessi prioritari da tutelare sono quelli dei cittadini e della sostenibilità del sistema sanitario. Certamente occorre tenere conto anche di interessi più circoscritti e di parte, come quelli di alcuni MMG che vogliono mantenere lo status quo, ma questi non possono diventare un ostacolo alla realizzazione di un cambiamento importante che riguarda tutti i cittadini italiani e i tanti operatori sanitari che si adoperano ogni giorno e con sacrificio per la loro salute. Le organizzazioni di pazienti, inclusa la Fondazione Mutagens, sono certamente disponibili ad offrire il loro contributo alle istituzioni sanitarie e agli operatori sanitari per la realizzazione di un cambiamento di questa portata.

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