Varianti genetiche e mutazioni: perché è importante distinguerle

Maurizio Genuardi

Quando si parla di tumori, ereditari e non, questi termini non sempre vengono usati in modo corretto, generando confusione. In questa intervista cerchiamo di fare un po’ di chiarezza con l’aiuto di Maurizio Genuardi, direttore della Genetica Medica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma

Grazie al progressivo aumento delle conoscenze sulle sindromi genetiche e sulle possibilità di diagnosticarle attraverso mezzi più sofisticati, la genetica medica sta acquisendo sempre maggiore importanza. In ambito oncologico questa branca della medicina, che si occupa in particolare della diagnosi e del follow up di patologie, prevalentemente rare o molto rare, a base genetica, è diventata uno dei tasselli indispensabili per attuare una medicina di precisione. Tuttavia l’avanzamento delle conoscenze, ha portato anche a una parziale revisione della terminologia a cui non sempre ha fatto seguito un uso corretto di alcuni termini, come varianti e mutazioni genetiche, e dei concetti che vogliono esprimere. Ne parliamo in questa intervista con Maurizio Genuardi, direttore dell’Istituto di Medicina genomica dell’Università Cattolica di Roma e dell’Unità operativa complessa di Genetica medica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS, nonché presidente della European Society of Human Genetics.

Che cosa si intende per variante genetica? E in che cosa si differenzia dal concetto di mutazione? 

Tradizionalmente le alterazioni genetiche che sono causa di malattie genetiche, in particolare malattie rare o relativamente rare, sono state chiamate “mutazioni”. L’uso di questo termine è legato al fatto che si ipotizza che queste alterazioni rare nella popolazione siano insorte per mutazione, ovvero per un cambiamento della sequenza del DNA, nella storia di una determinata famiglia o di una determinata popolazione e che quindi la malattia rappresenti l’effetto di una mutazione, ovvero di un cambiamento genetico, che è avvenuta in qualche generazione passata.

Negli anni ’90 del secolo scorso, questa terminologia ha tuttavia cominciato ad essere messa in discussione alla luce delle nuove cognizioni acquisite con i dati di analisi genetiche ai fini di ricerca e diagnostici. Da questi studi è emerso che ognuno di noi ha molte differenze nella sequenza del DNA rispetto allo standard della sequenza comune nel genere umano. Queste differenze sono genericamente indicate con il termine varianti genetiche. Alcune di queste varianti sono relativamente frequenti nella popolazione e sono definite più propriamente come varianti polimorfiche o polimorfismi. In particolare si parla di polimorfismi genetici per indicare i casi in cui una singola variante ha una frequenza nella popolazione uguale o superiore all’1%. Molti polimorfismi sono del tutto innocui, poiché non coinvolgono regioni del genoma importanti. Se una variante si riscontra nella popolazione con una frequenza inferiore all’1% si parla invece di variante rara, a volte addirittura “privata” quando la si ritrova in singoli individui o singole famiglie.

Anche le varianti rare spesso sono benigne, ovvero non sono associate a patologie. Tuttavia, alcune sono implicate nello sviluppo di malattie, in particolare delle vere e proprie malattie genetiche, rare o relativamente rare come le sindromi tumorali ereditarie.

Quando in una persona troviamo una differenza della sequenza del DNA rispetto a quella del DNA standard, non dobbiamo chiamarla mutazione. Quella che osserviamo quando analizziamo le sindromi ereditarie o altre malattie genetiche, è in realtà una variante genetica rispetto alla sequenza standard del DNA. Essa è sì l’effetto di una mutazione, l’evento che ne ha determinato la comparsa, ma che in realtà non sappiamo quando è avvenuta. Quindi oggi quando si parla di sindromi ereditarie sarebbe più corretto affermare che esse sono legate alla presenza non tanto di mutazioni genetiche quanto piuttosto di varianti genetiche germinali o costituzionali, ovvero presenti nell’individuo sin dal concepimento o dalle primissime fasi dello sviluppo. Il termine mutazione genetica andrebbe invece riservato ai casi in cui è documentato il cambiamento della sequenza del DNA nel passaggio dai genitori ai figli (mutazioni germinali de novo) oppure quando analizziamo il DNA delle cellule tumorali ed evidenziamo un cambiamento rispetto alle cellule sane della stessa persona. In questi casi, in particolare, si parla di mutazioni somatiche, il cui studio in ambito oncologico oggi si sta rivelando sempre più importante, insieme all’analisi delle varianti germinali, ai fini di una medicina di precisione.

Un altro dei motivi per cui il termine mutazione genetica è stato messo in discussione è di natura etica: infatti definire un individuo mutato o portatore di una mutazione pone anche un problema di stigmatizzazione. E in effetti questa è la principale ragione per cui è stato proposto di non usare questo termine dalla Human Genome Variation Society e da altre società scientifiche. A nessuno piacerebbe definirsi mutato, quando sappiamo che ognuno di noi è pieno di varianti genetiche, la maggior parte delle quali fortunatamente è innocua.

Che conseguenze possono avere le varianti genetiche sul singolo individuo?

Per quanto riguarda le conseguenze sulla salute, le varianti genetiche possono essere catalogate in innocue/benigne oppure causa di malattia o di predisposizione a malattia. Le varianti che interessano principalmente il medico in termini di predisposizione ereditaria ai tumori sono quelle che causano un alto rischio di sviluppare tumori e che vengono trasmesse secondo i principi dell’ereditarietà mendeliana. In pratica si tratta di varianti, dette patogenetiche, a carico di geni che da soli sono sufficienti a determinare un alto rischio di malattia, come per esempio accade nel caso di varianti a carico dei geni BRCA1-BRCA2 o di quelli associati alla sindrome di Lynch.

In generale, come ho già accennato le varianti che sono causa di malattie mendeliane sono rare nella popolazione, interessando meno dell’1% delle persone. Talvolta, però, alcune varianti patogenetiche possono raggiungere valori nell’ambito del polimorfismo e questo riguarda, per esempio, alcune varianti dei geni BRCA1-BRCA2 che sono molto diffuse nella popolazione degli ebrei Ashkenaziti.

La maggior parte delle varianti polimorfiche dal canto loro non sono associate a malattie e vengono quindi definite benigne (oppure neutre o innocue). Alcune di queste varianti possono essere responsabili di un moderato aumento di rischio nell’ambito di condizioni che hanno cause multifattoriali, ovvero patologie comuni nella popolazione generale nelle quali intervengono numerosi fattori di rischio ambientali e genetici. Queste patologie multifattoriali includono anche il cancro. La maggior parte dei tumori ha una base multifattoriale; anche se intervengono fattori di rischio genetici, in questi casi non si riconosce una trasmissione ereditaria vera e propria. Solo il 5-10% circa dei tumori è legato a una vera e propria predisposizione ereditaria.

Un altro argomento che genera spesso confusione nei pazienti, ma anche negli stessi addetti ai lavori, è la differenza tra tumori sporadici ed ereditari. Professor Genuardi può fare un po’ di chiarezza?

Molti definiscono tumori ereditari quelli che si trasmettono per via genetica e come tumori sporadici quelli che non sono trasmessi per via genetica/ereditaria e che quindi non sono legati a varianti patogenetiche di alto rischio. In realtà il concetto di sporadico è di ambito epidemiologico e indica che in una famiglia il tumore (o qualunque altra patologia sia presa in considerazione) è comparso in un’unica persona. Tuttavia questo non esclude che il tumore sia ereditario. I tumori ereditari possono infatti presentarsi in forma sporadica per motivi diversi: ad esempio perché causati da mutazioni de novo (però a quel punto interviene la possibile trasmissione alle generazioni successive), oppure perché il rischio determinato dalla variante genetica (in termini genetici la penetranza) è ridotta (il rischio di ammalarsi è basso per cui i predecessori non si sono ammalati), o ancora perché la modalità di trasmissione è recessiva (o non dominante), il che riduce la possibilità di avere altri parenti malati nelle generazioni precedenti e in quelle successive. Nel counseling genetico, il genetista può osservare una ricorrenza familiare del tumore, che può essere indicativa di una possibile forma ereditaria. Tuttavia non tutti i tumori familiari, anzi solo una piccola fetta di questi, sono propriamente ereditari. Nella maggior parte dei casi non troviamo alterazioni in geni di alto rischio e si presume che si tratti di coincidenze (soprattutto per tumori comuni come quello della mammella o del colon) oppure che ci sia una condivisione di fattori di rischio ambientali e genetici nell’ambito di tumori di origine multifattoriale.

Dal punto di vista epidemiologico-clinico, i tumori vanno quindi distinti in sporadici e familiari. Attraverso l’analisi di alcune caratteristiche cliniche o della storia familiare possiamo poi sospettare, sia nelle forme familiari, sia in quelle sporadiche, la presenza di una forma ereditaria, in cui sono documentate varianti genetiche di alto rischio che causano una trasmissione del rischio con modalità mendeliana.

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