Un salto di qualità nella governance sanitaria per migliorare la presa in carico dei soggetti ad alto rischio eredo-familiare

La tutela della salute in Italia è sancita dall’art. 32 della Costituzione ed è basata sulla universalità delle prestazioni sanitarie e assistenziali. Queste ultime devono essere offerte in condizioni di eguaglianza e devono garantire parità di accesso, uniformità e globalità di intervento. Per effetto della universalità tutti i cittadini di ogni età, classe sociale, luogo di residenza, hanno il diritto di usufruire dei servizi sanitari, al cui finanziamento partecipano mediante il pagamento di imposte o di contributi obbligatori. Questa scelta, che si differenzia drasticamente dal modello privatistico (come quello degli Stati Uniti e di altri Paesi Europei e Asiatici), implica una governance altamente complessa, che vede coinvolti l’insieme degli attori e delle istituzioni che partecipano alle attività di prevenzione, diagnosi, cura e assistenza. Purtroppo, tale modello sanitario nazionale risulta ancora incompiuto sul piano della efficacia ed efficienza delle prestazioni e della sua sostenibilità economica, per effetto di una governance ancora contraddittoria, che non riesce a trovare una sintesi tra l’accentramento a livello nazionale delle politiche sanitarie e il decentramento a livello regionale della loro concreta attuazione gestionale, organizzativa, amministrativa. Evidenti indicatori di tali limiti sono:

  • La disomogeneità delle prestazioni nelle diverse regioni e strutture ospedaliere
  • I divari territoriali dei LEA (livelli essenziali di assistenza)
  • La forte mobilità infra-regionale e interregionale dei pazienti

Disomogeneità delle prestazioni nelle diverse regioni e strutture ospedaliere

La riorganizzazione in atto dell’offerta sanitaria è basata sui PDTA (Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali) a livello regionale, in grado di garantire ampia copertura territoriale, tempestività di accesso alle cure, disponibilità di setting assistenziali specializzati. Inoltre, in ambito oncologico, fin dal 2014 è stata deliberata la costituzione e attuazione sul territorio nazionale delle Reti Oncologiche Regionali (ROR), per garantire una maggiore omogeneità dei PDTA aziendali/ospedalieri, una migliore programmazione e un forte coordinamento tra risorse e competenze a livello regionale. Purtroppo, ad oggi il quadro nazionale di attuazione dei PDTA regionali di patologia oncologica è altamente frammentato e disomogeneo. Nel caso dei soggetti ad alto rischio eredo-familiare sono meno della metà le regioni/province autonome che li hanno formalmente approvati per la sindrome HBOC, ancora meno per la sindrome di Lynch e per le altre sindromi ereditarie più rare. Anche per le Reti Oncologiche Regionali si sono cumulati inspiegabili ritardi nella loro messa a regime, con la conseguente disomogeneità e disparità dei PDTA e delle prestazioni anche all’interno delle singole regioni. Si sono andate a creare, per le prestazioni più complesse, delle forti divaricazioni tra le strutture primarie e quelle secondarie, con una accentuata discriminazione qualitativa di tipo territoriale. Lo stesso modello “Hub & Spoke” – più volte richiamato come “modello a tendere” di pianificazione, coordinamento e collaborazione a livello regionale tra strutture primarie e secondarie – è rimasto spesso sulla carta ed è poco visibile sul piano della sua concreta attuazione.

I divari territoriali dei LEA (livelli essenziali di assistenza)

La differenza nei livelli dei LEA – i livelli minimi di prestazioni sanitarie da garantire a tutti i cittadini italiani – fra le regioni italiane, certificata costantemente dal monitoraggio del Comitato LEA, testimonia che il SSN produce una “sanità diseguale”, in cui accanto a sistemi sanitari di eccellenza (Emilia-Romagna, Veneto) convivono sistemi sanitari che faticano a competere anche con quelli dei Paesi in via di sviluppo.  Nel caso dei soggetti ad alto rischio eredo familiare (malati e sani a rischio di malattia) esistono elevate differenze tra regioni nell’accesso agli screening oncologici, ai test genetici e genomici, agli interventi chirurgici di riduzione del rischio (mastectomia profilattica, annessiectomia e isterectomia profilattica), alle terapie innovative approvate dall’EMA e dall’AIFA (Parp inibitori, farmaci a bersaglio molecolare, immunoterapici).

L’emergenza Covid ha amplificato tali divari tra regioni e all’interno delle stesse regioni, lasciando senza assistenza o con minori livelli di assistenza fasce ampie della popolazione. Ora occorre potenziare maggiormente, rispetto al “modello ospedale-centrico”, la rete dei servizi territoriali – anche grazie ai finanziamenti ottenuti dal PNRR nella Sanità -, valorizzando il ruolo dei medici di base e introducendo strumenti di teleassistenza e di telemedicina. Tali investimenti saranno coperti finanziariamente per la voce infrastrutture (es. le Case di Comunità, gli Ospedali di Comunità) ma impongono a livello nazionale e soprattutto regionale una capacità di programmazione, di gestione e amministrativa fino ad oggi ampiamente deficitaria.

La forte mobilità infra-regionale e interregionale dei pazienti

La disomogeneità dei PDTA e i divari nei LEA interregionali sta amplificando il fenomeno della mobilità interregionale. Infatti la speranza di molti pazienti, specie nelle regioni del Sud, del Centro o nelle stesse province più periferiche del Centro-Nord, è di trovare strutture e cure più adeguate e tempestive di quelle vicine. Infatti, ogni anno, più di un milione di italiani si sposta, soprattutto dalle regioni del Sud, per ricevere delle prestazioni sanitarie. Il Servizio Sanitario Nazionale permette a tutti i cittadini di accedere alle cure mediche su tutto il territorio, senza alcuna distinzione. Ma cause di tipo strutturale – una cattiva gestione, o l’erogazione di servizi ospedalieri e sanitari meno efficaci – oppure la presenza nei luoghi di destinazione di eccellenze con team e reparti specializzati, spingono molti pazienti a recarsi verso altre strutture, anche fuori dalla propria regione. Ciò si verifica anche nella presa in carico dei soggetti ad alto rischio eredo-familiare, la cui relativa “novità” e la presenza di pochi “centri di eccellenza”, amplifica ulteriormente tale fenomeno di “pendolarismo sanitario”. La mobilità interregionale crea problemi non solo alle “regioni dei pazienti residenti” – che dovranno rimborsare quelle delle “strutture ospitanti”-, ma anche per queste ultime, che devono programmare accuratamente le loro attività e prestazioni, tenendo conto di una utenza mista tra residenti e non residenti. Essendo, inoltre, ogni regione relativamente autonoma nella attuazione dei LEA e nella rimborsabilità delle varie prestazioni, ciò introduce livelli di complessità gestionale e amministrativa cui spesso gli stessi cittadini devono in qualche modo sopperire, sobbarcandosi parte delle prestazioni stesse.

Il ruolo delle organizzazioni dei pazienti 

Le organizzazioni di pazienti, che in passato hanno fornito principalmente un supporto nell’ambito dell’assistenza, sono ora chiamate a contribuire anche alla definizione delle linee guida cliniche e alla programmazione delle stesse prestazioni dei diversi soggetti e operatori sanitari, regionali e nazionali, e a valutarne i risultati. Si tratta di un cambio di prospettiva molto rilevante. La forte contiguità e identificazione con i malati, con le loro famiglie e con i caregiver, consente all’associazionismo di monitorare e di valutare direttamente “sul campo” l’efficacia complessiva delle prestazioni sanitarie, in ogni loro dimensione. Anche attraverso parametri non clinici, relativi alla qualità della vita e al benessere fisico e mentale, sia nella dimensione individuale, sia in quella familiare e sociale. 

Anche la Fondazione Mutagens, a maggior ragione in quanto si occupa di pazienti (malati e sani a rischio) per i quali solo di recente si sono approvate linee guida e formalizzati protocolli clinici ad hoc, è impegnata su questo fronte di advocacy più strategico-istituzionale, per mettere a disposizione la prospettiva dei pazienti al miglioramento della loro presa in carico. Similmente a quanto è in corso con le Breast Unit, i pazienti portatori di sindromi ereditarie necessitano di Gruppi Oncologici Multidisciplinari (GOM Sindromi Ereditarie) nelle strutture di riferimento (HUB) e in quelle di supporto (Spoke), Reti Oncologiche Regionali pienamente funzionanti con una governance autonoma e autorevole, ben normata ed uniformemente riconosciuta in tutte le Regioni. Inoltre, anche il livello centrale delle Istituzioni Sanitarie – attraverso l’attuazione del Piano Oncologico Nazionale, del Piano Nazionale della Prevenzione, del Piano Nazionale delle Scienze Omiche (Oncogenetica e Medicina di Precisione) dovrà contribuire a definire e ad attuare la “cornice di contesto”, cioè gli obiettivi generali e specifici, i piani di attuazione, le risorse e la governance, da declinare e tradurre, di concerto con tutte le Regioni, sull’intero territorio nazionale. 

La Fondazione Mutagens è già presente su alcuni di tali tavoli istituzionali, con l’entusiasmo e la motivazione derivanti dalla rappresentanza di bisogni e aspettative di tante persone e famiglie che non hanno finora ricevuto l’attenzione e la dedizione specifica che meritavano. Noi proseguiamo tenacemente con le nostre iniziative ma siamo a disposizione di ogni soggetto che, a livello locale, regionale e nazionale, voglia offrire il suo contributo al miglioramento della presa in carico di tale popolazione ad alto rischio genetico.

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