Tumore ovarico tra passato e futuro

In vista della Giornata mondiale dell’8 maggio, su invito di ACTO, Nicoletta Colombo, direttore del programma di ginecologia all’IEO, fa il punto su questa grave neoplasia per la quale moltissimo è stato fatto nell’ultimo decennio

Ogni anno circa una donna su 80 riceve una diagnosi di tumore ovarico per un totale di più di 5300 nuove diagnosi annuali. Quello dell’ovaio è stato per anni il più letale tra i tumori ginecologici, ma negli ultimi cinque anni ci sono stati degli avanzamenti importantissimi, complice l’introduzione dei farmaci PARP inibitori (olaparib in primis) che hanno aumentato in modo significativo la sopravvivenza delle donne colpite da questa malattia in fase avanzata. Lo ha ricordato Nicoletta Colombo, professore associato all’Università Milano Bicocca e direttore del programma di ginecologia all’Istituto Europeo di Oncologia (IEO), in occasione di una recente diretta Facebook promossa da ACTO Italia (Alleanza Contro il Tumore Ovarico) in vista della Giornata mondiale del tumore ovarico che si terrà l’8 maggio. L’esperta, al fianco di ACTO sin dalla sua nascita nel 2010, ha fatto il punto sui progressi terapeutici, avvenuti negli ultimi dieci anni, che hanno cambiato la storia della malattia.

Medicina di precisione per il tumore ovarico

«Negli ultimi anni ci sono state grandi novità nel trattamento del tumore ovarico, dopo anni di buio totale – premette Nicoletta Colombo –. Soprattutto negli ultimi cinque anni abbiamo avuto degli avanzamenti importanti, in modo particolare nella prima linea di trattamento che è quella in cui si gioca la prognosi della malattia».

La medicina di precisione è stata per molti anni solo un miraggio per il tumore ovarico perché non si riusciva a identificare dei target, dei bersagli mirati. Questo perché il tumore ovarico, o meglio il carcinoma sieroso di alto grado, che è quello più frequente in fase avanzata, non è caratterizzato da mutazioni specifiche contro cui indirizzare eventuali farmaci. «Il tumore ovarico è caratterizzato da un grande “caos” genomico, non da una o più mutazioni specifiche. Questo ci ha molto limitato nel corso degli anni per poter utilizzare la medicina di precisione – fa notare Colombo -. Ma negli ultimi anni abbiamo finalmente trovato un bersaglio. Abbiamo capito che almeno il 50% dei tumori ovarici ha un difetto in un meccanismo della riparazione del DNA, che si chiama ricombinazione omologa».

Ed è proprio sfruttando questo difetto con farmaci specifici che bloccano un altro meccanismo di riparazione del DNA, ovvero i PARP inibitori, si è riusciti finalmente a trovare un’arma efficace per quel 50% dei tumori ovarici che presentano un deficit della ricombinazione omologa (HRD).

Deficit della ricombinazione omologa e PARP inibitori

Sebbene i difetti della ricombinazione omologa siano particolarmente presenti in pazienti con tumori che evidenziano varianti patogenetiche nei geni BRCA1 e BRCA2, anche altri tumori senza mutazione BRCA possono avere questo difetto, che si osserva appunto in circa il 50% dei carcinomi ovarici.

«All’inizio abbiamo usato i PARP inibitori per la recidiva del tumore ovarico, dove funzionavano molto bene, ritardando la progressione. Ma la grande novità degli ultimi quattro, cinque anni è stata la dimostrazione che questi farmaci sono estremamente efficaci in prima linea, ovvero quando li impieghiamo dopo la chemioterapia iniziale, successiva alla chirurgia. Se il tumore risponde bene alla chemioterapia, usiamo i PARP inibitori come terapia di mantenimento. Nei tumori con mutazioni BRCA e in quelli HRD, questi farmaci funzionano molto bene».

La rivoluzione del PARP inibitori

L’esplosione dei PARP inibitori è iniziata nel 2018, quando è stato dimostrato che nelle pazienti con mutazioni BRCA, l’utilizzo di questi farmaci portava a un beneficio mai visto in precedenza con un aumento della sopravvivenza libera da progressione e poi, molto recentemente, è stato dimostrato anche un miglioramento della sopravvivenza globale.

«I dati a lungo termine indicano che le pazienti che fanno la terapia di mantenimento con i PARP inibitori hanno un aumento della sopravvivenza. Uno studio fatto solo nelle pazienti con mutazioni BRCA indica che a sette anni il 67% delle pazienti è vivo contro il 46% del gruppo placebo. Non solo, il 45% delle pazienti non ha mai avuto una recidiva contro 20% del gruppo placebo. Una paziente che a sette anni non ha mai avuto una recidiva per me è una paziente guarita» afferma l’esperta, sottolineando che l’enorme beneficio di questa terapia con PARP inibitori è presente non solo nelle pazienti BRCA mutate, ma anche in quelle HRD positive.

Nuove combinazioni

Nuove prospettive per il tumore ovarico arrivano anche dalla combinazione di più farmaci tra loro come segnala Colombo. «In uno studio in cui abbiamo combinato il PARP inibitore olaparib con bevacizumab (un farmaco che blocca la crescita di nuovi vasi e quindi il nutrimento al tumore) abbiamo visto per le pazienti HRD un aumento significativo della sopravvivenza globale: a cinque anni il 65% delle pazienti è vivo contro il 48% delle pazienti che non hanno preso il PARP inibitore. Inoltre abbiamo il 46% di pazienti senza recidiva a cinque anni (probabilmente guarite)».

Accanto a olaparib, il primo PARP inibitore ad essere approvato, ce ne sono altri, per esempio niraparib. Anche questo farmaco ha dimostrato grande efficacia in tutte le pazienti, anche se con un gradiente di efficacia: massima nelle pazienti BRCA, poi in quelle HRD e infine in tutte le altre.

Nuove armi anche per le recidive

Se è vero che è aumentato il tasso di sopravvivenza e probabilmente di guarigione, è anche vero che purtroppo ci sono ancora le recidive. In questo ambito sta emergendo una nuova classe di farmaci, i cosiddetti farmaci anticorpo-coniugati, in cui un chemioterapico è legato ad un anticorpo che riconosce sul tumore un particolare recettore, permettendo di portare il chemioterapico direttamente nella cellula tumorale. «Con i farmaci anticorpo-coniugati veicoliamo il chemioterapico in maniera precisa sul tumore. Possiamo quindi raggiungere il tumore con alte concentrazioni di farmaco e ottenere un effetto mirato e una maggiore efficacia. Alcuni di questi farmaci sono in studio nel tumore ovarico e hanno già dimostrato una certa efficacia. Uno di questi, il mirvetuximab-soravtansine, ha ricevuto l’approvazione della Food and Drug Administration statunitense e ora speriamo che venga approvato anche dall’Agenzia Europea del farmaco (EMA). Penso che per il futuro questa sia la classe di farmaci più promettente. I farmaci anticorpo-coniugati potrebbero fare la differenza nella recidiva e nella persistenza di malattia».

Il ruolo dell’immunoterapia

L’immunoterapia ha fatto miracoli per tanti tumori, basti pensare al melanoma o al tumore del polmone e del rene, dove sono stati ottenuti risultati incredibili. «Nell’ambito dei tumori ginecologici l’immunoterapia ha dato ottimi risultati per l’endometrio e la cervice. Per l’ovaio, per ora, i trial hanno dato esiti negativi ma ci sono degli studi in corso che ne suggeriscono un ruolo, per esempio nella malattia platino-resistente o in presenza di resistenza ai PARP inibitori» segnala Colombo.

«Negli ultimi anni abbiamo portato l’immunoterapia in prima linea e abbiamo fatto degli studi in cui, oltre alla chemioterapia, abbiamo dato un immunoterapico insieme al PARP inibitore e al bevacizumab – continua Colombo -. Ed è proprio di pochi giorni fa l’annuncio che uno di questi trial ha dato risultati positivi, migliori rispetto allo standard di trattamento. Quindi finalmente c’è un messaggio positivo per l’immunoterapia, addirittura nella prima linea, all’inizio della storia naturale della malattia. I risultati verranno presentati all’ASCO (Congresso della Società americana di oncologia clinica)».

L’importanza del test HRD

Il test HRD è diventato fondamentale nella decisione terapeutica nella terapia di prima linea perché il beneficio dei PARP inibitori lo si osserva soprattutto in presenza di HRD positivo.

«La presenza di HRD è un fattore predittivo, oltre che prognostico, molto importante. Per cui è molto rilevante avere questa informazione sin dalla diagnosi – conferma Colombo -. Inizialmente questo test veniva fatto solo da una società americana ed era anche molto costoso. Tutti gli studi sono stati fatti mandando i campioni tumorali a questa società e aspettando il risultato che veniva dagli Stati Uniti. Questo iter è impraticabile se vogliamo portare il test HRD nella pratica clinica. Tuttavia ci sono state diverse iniziative accademiche in Europa per mettere a punto un test HRD che potesse essere utilizzato localmente. Non solo, sono state messe a punto anche nuove piattaforme commerciali che possono essere utilizzate all’interno dei nostri laboratori».

Proprio all’IEO, in collaborazione con altri Istituti italiani, sono stati messe a punto delle metodiche per effettuare il test HRD, la cui validità è stata verificata sia in laboratorio sia clinicamente sui pazienti. All’IEO, al momento della diagnosi di tumore ovarico, il campione viene inviato al patologo che, oltre a fare la diagnosi istologica, esegue sia il test BRCA sia il test HRD. «I Centri esterni hanno la possibilità di inviarci i loro campioni. Inoltre, in attesa del riconoscimento e della rimborsabilità da parte del Sistema sanitario nazionale, possiamo contare sul supporto dell’industria farmaceutica per poter eseguire queste indagini. Non ci sono più tantissime scuse per non fare il test in Italia» conclude Colombo.

Antonella Sparvoli

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