Tumore ovarico: nuovi orizzonti per diagnosi precoce e migliore gestione delle cure

Promettenti i risultati preliminari di una metodica che analizza il DNA tumorale attraverso il Pap test e apre la strada all’identificazione del cancro in fase precoce. In corso studi anche sulle potenzialità della biopsia liquida per valutare l’andamento della malattia e la risposta alle cure. Ne parliamo con Maurizio D’Incalci, Capo Laboratorio di Farmacologia Antitumorale dell’IRCCS Istituto Clinico Humanitas e membro del Team ginecologia di Mutagens

Il tumore sieroso ad alto grado dell’ovaio è la forma più comune di carcinoma ovarico. Esso è caratterizzato da un’eterogeneità molecolare molto elevata che finora ne ha ostacolato la diagnosi precoce per la mancanza di marcatori universali e allo stesso tempo ha limitato la messa a punto di terapie mirate. Tuttavia studi recenti in cui sono state utilizzate particolari tecniche di biopsia liquida e altre analisi molecolari aprono nuove prospettive che potrebbero avere ricadute importanti sia sul fronte della diagnosi precoce sia sulla gestione delle terapie. Ne parliamo con Maurizio D’Incalci, Capo Laboratorio di Farmacologia Antitumorale dell’Istituto Clinico Humanitas, professore di Humanitas University e membro del Team ginecologia di Mutagens.

In che modo la biopsia liquida può essere d’aiuto per verificare la risposta alle terapie?

Con uno studio attuato principalmente con il supporto della Fondazione Alessandra Bono Onlus, pubblicato di recente sulla rivista Clinical Cancer Research, abbiamo evidenziato che la biopsia liquida, basata sulla misura del DNA tumorale circolante nel sangue, permette di seguire l’andamento del tumore ovarico sieroso ad alto grado nel tempo e soprattutto di anticipare la diagnosi di recidiva di molti mesi rispetto ai metodi standard, come la misura del CA-125. La metodica di biopsia liquida che abbiamo usato si chiama shallow whole-genome sequencing (sWGS). Si tratta di un tipo di analisi di sequenziamento a bassa intensità che presenta una serie di vantaggi: non è invasiva, è più sensibile del CA-125, dà risposte in tempi rapidi ed è poca costosa. L’idea ora è quella di inserire e valutare questa strategia nell’ambito di altri progetti di ricerca, in modo tale che possano confermarne la validità e fornire eventualmente nuove informazioni. In particolare metteremo a disposizione questa metodica per alcuni studi in corso di Alleanza contro il cancro e altre ricerche che partiranno a breve in pazienti in terapia con PARP inibitori. Questo approccio terapeutico sta dando risultati molto incoraggianti, favorendo lunghe remissioni e ci auguriamo anche qualche guarigione. Attraverso questa metodica di biopsia liquida ora vorremmo capire se, a un certo punto, ci sarà la possibilità di non trattare più queste pazienti e monitorarle solamente nel tempo per verificare che non ci siano recidive.

Quali sono invece le prospettive che si stanno aprendo sul fronte della diagnosi precoce del carcinoma ovarico?

Negli ultimi anni gli anatomopatologi hanno stabilito che una larga parte dei tumori sierosi ad alto grado dell’ovaio in realtà deriva dalla tuba di Falloppio. Sembra che attraverso le fimbrie vengano rilasciate cellule tumorali in tutto il peritoneo e che queste poi possano aggredire l’ovaio. E questo sarebbe uno dei motivi per cui nella maggior parte dei casi si scopre il cancro dell’ovaio quando è già in fase avanzata. Partendo da questa ipotesi abbiamo pensato che la liberazione di cellule tumorali dalla tuba potesse essere rilevata anche nel collo dell’utero, attraverso il Pap test, e magari anni prima della diagnosi di carcinoma ovarico. E in effetti i dati preliminari che abbiamo raccolto su 17 pazienti ci dicono che è così. In pratica abbiamo rilevato la presenza di DNA tumorale, che deriva dal carcinoma ovarico, in Pap test eseguiti dalle pazienti negli anni antecedenti la diagnosi di cancro. In questo studio preliminare abbiamo usato come “marcatore” del tumore ovarico alcune mutazioni del gene Tp53, visto che oggi sappiamo che fin dalle prime fasi della trasformazione tumorale le cellule acquisiscono nel loro DNA delle peculiari mutazioni in questo gene che portano alla produzione di una proteina (P53) modificata. Dopo aver identificato esattamente dove era la mutazione sul tessuto tumorale, abbiamo analizzato il Pap test con una tecnologia molto sensibile e siamo riusciti a vedere queste alterazioni. Abbiamo quindi dimostrato che, in teoria, esiste la possibilità di diagnosticare precocemente il tumore dell’ovaio, avendo delle tecnologie molto sensibili. Ora vogliamo replicare e approfondire quanto appreso finora e lo stiamo facendo con uno studio retrospettivo, finanziato da Alleanza Contro il Cancro, che coinvolgerà diversi IRCCS e la Rete oncologica piemontese. Nei prossimi mesi vorremmo arrivare ad analizzare almeno 200 Pap test di donne che hanno avuto il tumore ovarico.

Un altro ambizioso obiettivo che ci siamo posti è usare questo tipo approccio in pazienti che non hanno ancora il tumore dell’ovaio, ma che presentano un rischio elevato di svilupparlo, come le donne portatrici di mutazioni germinali nei geni BRCA1 o BRCA2. Nel nostro studio preliminare abbiamo lavorato su campioni di pazienti con tumori di cui conoscevamo già lo stato mutazionale del gene Tp53, ma non abbiamo a disposizione questa informazione per la nuova ricerca, motivo per cui stiamo cercando di mettere a punto anche delle metodiche di analisi alternative, ma altrettanto sensibili. Se questi studi ci daranno conferme, avremo davvero la possibilità di cambiare la storia del tumore dell’ovaio.

Su quali altri fronti state lavorando?

Un filone di studio interessante riguarda quel 10-15% di casi in cui il tumore ovarico viene diagnosticato in fase precoce, ancora al primo stadio. Si tratta appunto di un evento raro in cui la diagnosi arriva spesso in modo casuale, per esempio in seguito a un intervento su una cisti ovarica che poi si rivela essere un tumore non ancora diffuso. Alcuni dati preliminari di uno studio condotto da un team di ricercatori e clinici coordinati da Sergio Marchini, in collaborazione con diversi centri quali l’Istituto Mario Negri di Milano, l’Ospedale San Gerardo di Monza, il Policlinico di Milano e l’Ospedale Sant’Anna di Torino e supportato da AIRC, ha messo in evidenza, attraverso l’analisi genomica di oltre 200 casi di tumore ovarico al primo stadio, che esistono dei pattern di instabilità cromosomica che predicono abbastanza bene se il tumore recidiverà o meno. Queste sono le basi per proporre uno studio, anche a livello europeo (visto che la diagnosi di tumore al primo stadio è molto rara), cercando di frazionare i vari casi e per ogni frazione decidere quale potrebbe essere l’approccio migliore.

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