Tumore del pancreas: sorveglianza per le persone ad alto rischio

Lo screening di soggetti con importante familiarità o alterazioni germinali che predispongono al cancro pancreatico permetterebbe di individuare la malattia in uno stadio precoce con una prognosi migliore

Quello del pancreas è uno dei tumori più insidiosi e tra le prime cause di morte per tumore, complice una diagnosi tardiva in gran parte dei casi. Almeno il 10% delle neoplasie del pancreas riconosce una familiarità o l’accertata presenza di alterazioni genetiche germinali che predispongono allo sviluppo di questo e, talvolta, anche di altri tumori. In questi soggetti ad alto rischio, programmi di sorveglianza mirati possono però fare la differenza, permettendo una diagnosi precoce della malattia e di conseguenza una prognosi migliore. È quanto emerso sinora dallo studio multicentrico americano CAPS (Cancer of the Pancreas Screening), i cui risultati sono stati pubblicati di recente sul Journal of Clinical Oncology. Ma anche dati italiani, raccolti nell’ambito del Registro italiano di famiglie a rischio di cancro al pancreas (IRFARPC), promosso dall’Associazione Italiana per lo Studio del Pancreas (AISP), vanno nella stessa direzione. Ne parliamo con Gabriele Capurso, responsabile dell’Unità funzionale di ricerca clinica presso l’Unità operativa di endoscopia bilio-pancreatica ed ecoendoscopia e vice-direttore del Centro Pancreas dell’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano, oltre che Segretario generale della Società Europea per le malattie del pancreas (EPC) e membro della Task force gastro-endo dell’AISP.

Gabriele Capurso

Lo studio CAPS

Il programma CAPS è stato avviato negli USA nel 1998. Si tratta di uno studio ancora in corso per verificare se lo screening per il cancro al pancreas in individui ad alto rischio (a causa di una mutazione ereditaria e/o una storia familiare) possa portare alla diagnosi in una fase iniziale quando il tumore è più curabile. I dati riportati sul Journal of Clincial Oncology riguardano il gruppo più recente di partecipanti allo studio, che continua ad arruolare pazienti. La recente pubblicazione ha anche aggiornato i risultati di sopravvivenza relativi ai precedenti partecipanti al CAPS.
«Nello studio sono stati presi in esame circa 1500 soggetti ad alto rischio e in una decina è stato diagnosticato un tumore al pancreas. Di fatto i partecipanti entrano nello studio con il terrore che venga loro diagnosticato un tumore, ma poi le probabilità che ciò accada sono fortunatamente basse – fa notare Capurso -. L’ideale sarebbe riuscire a stratificare il rischio e quindi capire se esista un sottogruppo di pazienti con specifiche caratteristiche con maggiori probabilità di ammalarsi. Ed è quello che stiamo cercando di fare anche con la sorveglianza dei pazienti del registro italiano. Oltretutto lo screening non è banale perché richiede il ricorso ad indagini costose di terzo livello, quali l’ecoendoscopia e/o la risonanza magnetica annuali, che vanno fatte da mani esperte in centri di riferimento».

I criteri per accedere ai protocolli di sorveglianza

Nello studio CAPS, come in altri programmi di sorveglianza, compreso quello italiano, sono due le vie principali per accedere ai protocolli di screening. Da una parte possono essere coinvolti i soggetti con una storia familiare di tumore al pancreas, caratterizzata da almeno due casi di tale neoplasia in familiari stretti (genitori, fratelli, figli). Dall’altra possono accedere le persone che presentano un’alterazione germinale accertata in un gene che predispone al cancro del pancreas che abbiano anche un solo familiare, a qualsiasi di distanza (genitori, fratelli, nonni, zii), che abbia avuto il tumore pancreatico. «Fanno eccezione gli individui ad altissimo rischio, ovvero che presentano alterazioni patogenetiche germinali nei geni CDKN2A (melanoma familiare) o STK11 (sindrome di Peutz-Jeghers), i quali possono entrare in sorveglianza anche se non hanno familiari che abbiano sviluppato il tumore al pancreas» puntualizza Capurso.

Le indagini usate per i controlli

Gli esami utilizzati per lo screening sono la ecoendoscopia e/o la risonanza magnetica. L’ecoendoscopia ha delle analogie con la gastroscopia, ma sulla punta dello strumento endoscopico è presente anche un ecografo miniaturizzato. In pratica attraverso lo stomaco si studia il pancreas, che è “appoggiato” dietro, ed è possibile fare anche eventuali biopsie con un ago sottile. La risonanza magnetica è un esame meno invasivo, che non consente l’esecuzione di biopsie, ma ha il pregio di valutare tutto l’addome e quindi poter evidenziare anche possibili anomalie in altri distretti. I pazienti con alterazioni ereditarie spesso sono predisposti allo sviluppo di tumori in più organi. «Uno degli obiettivi dello stesso studio CAPS così come di altri studi in corso e del registro italiano è anche quello di capire quale indagine diagnostica sia la più adatta o comunque stabilire eventuali criteri di alternanza tra i due esami» segnala Capurso.

I risvolti positivi dello screening

«Un dato molto incoraggiante emerso dallo studio CAPS è che su 10 casi di tumore al pancreas diagnosticati con lo screening, ne sono stati operati 9 in quanto non presentavano metastasi e 7 di questi pazienti erano vivi dopo 3 anni – riferisce Capurso -. Di norma su 10 casi di tumore al pancreas non riusciamo ad operarne più di 2. Inoltre la sopravvivenza a 5 anni per questo tumore è di circa il 10%, mentre nello studio CAPS arriva al 70%, valore estremamente alto. Questo fa capire che quando si identificano tumori al pancreas, andandoli a cercare in una fase in cui non danno sintomi, li si può trovare in uno stadio sufficientemente precoce tale da garantire una prognosi molto migliore».

Il nodo dei test genetici

Nonostante i dati incoraggianti, ci sono ancora però alcuni punti da chiarire come fa notare Capurso. «Un analogo studio olandese dello scorso anno, condotto su circa 500 pazienti, ha portato all’identificazione di un’analoga percentuale di tumori, ma solo in soggetti con un’alterazione genetica accertata. Secondo i ricercatori olandesi bisognerebbe fare il test genetico per la rilevazione di mutazioni (in genere un pannello multigene) a tutti, e quindi proseguire lo screening essenzialmente nei soggetti con un’alterazione genetica predisponente, mentre potrebbe non valere la pena andare avanti con i controlli nei pazienti che presentano solo la familiarità (albero genealogico) per il tumore al pancreas. Dallo studio americano CAPS, dove non tutti i pazienti arruolati avevano fatto il test mutazionale, è invece emerso che verosimilmente circa i due terzi dei tumori rilevati erano in soggetti che avevano mutazioni e un terzo in individui con familiarità». Resta, quindi, da chiarire se effettivamente la presenza di un’alterazione genetica accertata rispetto alla sola forte familiarità possa essere un criterio per lo screening e questo è uno degli obiettivi dello studio in corso in Italia nei pazienti che afferiscono al Registro italiano di famiglie a rischio di cancro al pancreas.

La realtà italiana

Ad oggi non c’è nessuna linea guida che dia la raccomandazione di eseguire il test mutazionale a tutti i soggetti che entrano nei protocolli di sorveglianza. Finora nel registro di AISP sono state incluse circa 700-800 persone sulla base della forte familiarità o della presenza di accertata di alterazioni genetiche germinali di predisposizione al tumore al pancreas. «Grazie al supporto delle associazioni dei pazienti, ora daremo la possibilità a tutti i soggetti in sorveglianza ad alto rischio per i quali non è nota la presenza di una specifica alterazione genetica, la possibilità di sottoporsi gratuitamente al test mutazionale con un ampio pannello multigene – segnala l’esperto – L’obiettivo è duplice. Da una parte verificare la presenza di mutazioni che potrebbero richiedere controlli più stringenti, come del caso del melanoma familiare (gene CDKN2A) e della sindrome di Peutz-Jeghers (gene STK11). Dall’altra, qualora venisse identificata un’alterazione genetica germinale, proporre l’esecuzione dei test genetici a cascata sui familiari, i quali potrebbero poi accedere a protocolli di sorveglianza e strategie di prevenzione. Senza contare che i dati che raccoglieremo aiuteranno a capire più in generale come personalizzare lo screening».

Il problema della sostenibilità

Per ora nel nostro Paese la sorveglianza è fatta sotto la responsabilità di una associazione scientifica (AISP) che organizza i controlli in centri dedicati, senza costi per i pazienti. C’è però un problema di sostenibilità. Ecco perché lo scopo finale del progetto di ricerca dell’AISP è produrre evidenze scientifiche che portino di fatto la politica sanitaria, nell’era della medicina di precisione, a sostenere e fornire le risorse per effettuare test genetici e screening nei casi in cui risulteranno più indicati. «Ad oggi nessun Paese ha un programma screening organizzato dal governo nazionale per il cancro al pancreas. Quelle in essere sono tutte iniziative promosse da consorzi di ricerca o associazioni scientifiche che vanno considerate alla stregua di protocolli di sperimentazione» conclude Capurso.

Antonella Sparvoli

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