Tumore alla prostata: nessuna operazione per i pazienti a basso rischio

Stessi esiti per chirurgia, radioterapia e sorveglianza attiva. Lo segnala lo studio Start, condotto nelle principali strutture di urologia e radioterapia degli ospedali di Piemonte e Valle d’Aosta. Intervista a Giovannino Ciccone, primo autore dello studio

Sebbene la sorveglianza attiva sia raccomandata da anni come valida opzione per i pazienti con tumore alla prostata a basso rischio, la sua adozione nella popolazione generale è spesso limitata. Tuttavia se i pazienti vengono informati in modo corretto su tutte le possibili strategie da adottare, quali chirurgia, radioterapia o sorveglianza attiva, quest’ultima ha un alto livello di gradimento. Ma soprattutto la probabilità di sopravvivenza a cinque anni dalla diagnosi è identica per le tre diverse scelte terapeutiche. Lo rivela lo studio italiano Start, pubblicato sulla rivista scientifica Jama Network Open, promosso dalla Rete Oncologica del Piemonte e della Valle d’Aosta, coordinato dall’Epidemiologia Clinica della Città della Salute di Torino, che conferma anche in Italia i risultati del trial PROTECT, condotto in Inghilterra. Ne parliamo con Giovannino Ciccone, primo autore dello studio e responsabile dell’Epidemiologia clinica e valutativa dell’Azienda ospedaliero-universitaria Città della Salute e della Scienza di Torino.

Giovannino Ciccone

Le tre opzioni di scelta

Nello studio Start, supportato dalla Fondazione Compagnia di San Paolo, a partire dal 2015, sono stati seguiti circa 900 pazienti con una nuova diagnosi di tumore della prostata a basso rischio, presso le principali strutture di urologia e radioterapia degli ospedali di Piemonte e Valle d’Aosta.

Ai pazienti è stata offerta la possibilità di scegliere fra i tradizionali trattamenti radicali (chirurgia o radioterapia) e un programma di sorveglianza attiva.

«Questo studio aveva almeno due finalità – puntualizza Ciccone -, una più tradizionale di tipo scientifico, ovvero fare un confronto tra chirurgia, radioterapia e sorveglianza attiva in termini di esiti clinici, qualità di vita e costi, perché quando abbiamo iniziato lo studio non c’erano trial che avessero valutato in maniera rigorosa gli esiti di questi percorsi. L’altra finalità importante, più di impatto organizzativo, era quella di convincere la comunità degli urologi e dei radioterapisti a considerare anche la sorveglianza attiva tra le opzioni da proporre ai pazienti che avevano le caratteristiche di un tumore a basso rischio, cosa che avveniva solo in modo episodico e in determinate circostanze. L’idea quindi era quella di dare una dignità e una regolarità a un approccio che prima veniva riservato a pochissimi pazienti».

L’opuscolo per i pazienti

Il protocollo dello studio prevedeva una chiara spiegazione della diagnosi, della prognosi e delle diverse alternative di trattamento. Le informazioni sono state fornite non solo dallo specialista, ma anche tramite un opuscolo consegnato ai pazienti, che riassumeva in termini comprensibili i vantaggi ed i rischi delle diverse alternative per consentire una decisione ponderata.

«La comunicazione che avviene tra medico e paziente è giustamente molto personalizzata e poco riproducibile, tarata sul tipo di paziente e sulle sue incertezze e preoccupazioni. Abbiamo voluto garantirci che alcuni fatti fondamentali fossero trasmessi in modo corretto e omogeneo visto che, come emerge dalla letteratura scientifica, ogni specialista tende a privilegiare i vantaggi delle tecniche che lui controlla direttamente e a essere più scettico sulle alternative. Questo è documentato anche per il tumore della prostata, per il quale le informazioni possono differire tra urologi e radioterapisti. Per questo abbiamo pensato di scrivere un opuscolo ad hoc, indicando in modo chiaro i vantaggi e i rischi di ciascuna delle tre opzioni, concordando i contenuti con tutti gli specialisti coinvolti, con lo scopo di promuovere un processo decisionale più informato e consapevole da parte dei pazienti» segnala Ciccone.

Sorveglianza attiva

Tramite l’opuscolo è stato possibile spiegare meglio ai pazienti anche il concetto piuttosto innovativo di sorveglianza attiva, un protocollo di controlli periodici il cui calendario è abbastanza ben definito, che non va confuso con la vigile attesa, riservata a pazienti molto anziani in cui l’intervento è controindicato.

«La sorveglianza attiva prevede l’esecuzione periodica di esami del sangue, in particolare il dosaggio del PSA (inizialmente ogne tre mesi, poi ogni sei), e la visita urologica ogni sei mesi per controllare che siano confermate le caratteristiche di basso rischio del tumore e le condizioni generali del paziente– spiega Ciccone -. L’indagine più impegnativa della sorveglianza attiva è la biopsia della prostata che va ripetuta dopo 12 mesi per essere più sicuri che, durante la prima biopsia diagnostica, non sia sfuggito qualche tumore con caratteristiche di maggiore aggressività. Nei programmi più recenti tuttavia la biopsia viene parzialmente sostituita dalla risonanza magnetica che, in assenza di variazioni rispetto alla valutazione iniziale, consente di evitare appunto il ricorso alla più invasiva biopsia. Questo programma di controlli man mano che il tumore dimostra di avere un comportamento stabile, viene diluito nel tempo fino a dire che il paziente ha superato il periodo di stretta osservazione (dopo circa 8 anni) e che, a discrezione dei centri e degli specialisti, non ci sia più bisogno di fare test e controlli particolari».

Stessi esiti

I dati raccolti durante lo studio hanno confermato un’identica probabilità di sopravvivenza a 5 anni dalla diagnosi tra le diverse scelte. Nei pazienti con tumore a basso rischio (che rappresenta il 10-15% del totale dei nuovi casi di tumore della prostata) la sorveglianza attiva, in assenza di segnali di aggravamento, porta dunque agli stessi esiti di un trattamento radioterapico o di un intervento chirurgico. Questo, applicato nella pratica clinica, consentirebbe di evitare ogni anno, nelle due regioni, almeno un centinaio di trattamenti radicali, o quantomeno di ritardarli di molto tempo, riducendo l’impatto negativo di questi interventi sulla qualità di vita dei pazienti, per quanto riguarda i disturbi della sfera sessuale, urinaria ed intestinale.

«Uno dei risultati più sorprendenti che abbiamo osservato, è che la sorveglianza attiva, una procedura di fatto poco conosciuta e poco utilizzata, una volta spiegata bene, è stata accettata da più dell’80% dei pazienti – fa notare Ciccone -. Questi dati mostrano come ci fosse il desiderio, la volontà da parte dei pazienti di considerare la sorveglianza attiva come un’ipotesi utile, dopo aver appreso gli effetti indesiderati delle procedure interventistiche. Quello che speriamo è che gli specialisti continuino a proporla con la stessa convinzione e qualità e che i pazienti che ricevono una diagnosi di tumore della prostata a basso rischio siano più informati e consapevoli di questa opzione».

Antonella Sparvoli

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