Tumore al seno triplo negativo: come capire se l’immunoterapia è efficace

Un nuovo studio dimostra come l’identificazione di specifiche caratteristiche della neoplasia aiuti a predire la risposta ai farmaci immunoterapici

Si avvicina la possibilità di individuare con precisione le donne con tumore al seno triplo negativo, una forma spesso aggressiva di cancro mammario, che possono trarre beneficio dell’aggiunta dell’immunoterapia alla tradizionale chemioterapia. Merito di uno studio, pubblicato di recente sulla prestigiosa rivista scientifica Nature, nato dalla collaborazione tra la Fondazione Michelangelo, l’Ospedale San Raffaele e il Cancer Research Institute di Cambridge, nel Regno Unito.

Gli studiosi hanno scoperto che è possibile identificare nei tumori triplo negativi, che rendono conto del 15% di tutti i casi di cancro mammario, caratteristiche uniche che differiscono da paziente a paziente, ovvero come sono fatte le singole cellule e dove queste sono posizionate, che permettono di predire la risposta all’immunoterapia. Approfondiamo la nuova scoperta con Giampaolo Bianchini, responsabile dell’Oncologia della mammella all’IRCCS Ospedale San Raffaele di Milano nonché uno dei due responsabili scientifici del nuovo studio.

Giampaolo Bianchini

Il punto di partenza

Nel nuovo studio sono stati analizzati 660 campioni di biopsia di tumori triplo-negativi raccolti su 243 pazienti arruolate nello studio NeoTRIP.  Questo studio clinico aveva confrontato in fase neoadiuvante, ovvero prima dell’intervento chirurgico, due trattamenti: la sola chemioterapia e la chemioterapia associata all’immunoterapia con il farmaco atezolizumab, un inibitore del checkpoint immunitario che ha come bersaglio la proteina PD-L1. «I risultati di questo primo studio sono stati complessivamente negativi, non ci hanno infatti permesso di vedere un benefico dell’immunoterapia in una popolazione non selezionata – premette Bianchini -. Tuttavia analizzando più nel dettaglio i dati, abbiamo visto che in alcuni pazienti è possibile individuare biomarcatori predittivi di risposta all’immunoterapia. Questi biomarcatori di risposta terapeutica potrebbero aiutare a individuare i pazienti a cui offrire l’immunoterapia in aggiunta al trattamento chemioterapico e allo stesso tempo quelli che non traggono beneficio dall’associazione di chemioterapia e immunoterapia, a cui eventualmente proporre altre strategie terapeutiche».

La metodica per studiare come si comportano le cellule

Nel nuovo studio i campioni di biopsia sono stati analizzati in modo dettagliato con una metodica molto precisa e sofisticata, che solo pochi centri hanno a disposizione (tra cui il CRI di Cambridge, dove Raza Ali, coautore principale dello studio, è uno dei massimi esperti mondiali), chiamata imaging mass cytometry, che usa anticorpi marcati con metalli (come rame, piombo e nichel) per capirne la distribuzione nel tessuto neoplastico. «Grazie all’imaging mass cytometry sono state prodotte immagini dettagliate della presenza nei campioni di 43 proteine chiave marcate, indicative delle caratteristiche e del comportamento delle diverse cellule – spiega Bianchini -. In questo modo abbiamo visto che la quantità di particolari cellule immuni, ovvero le cellule T citotossiche, è associata a una maggiore probabilità di beneficiare dall’aggiunta di immunoterapico alla chemioterapia e che queste cellule immuni, per dare il meglio di sé, devono essere in un particolare stato funzionale di attivazione e quindi non esaurite. Inoltre la metodica ci dice dove si trovano le cellule. La presenza di particolari cellule del sistema immune a diretto contatto con la cellula neoplastica fa la differenza. Se invece che quantificare semplicemente il numero di tali cellule, quantifichiamo quelle che sono a stretto contatto, riusciamo ad avere informazioni preziose sulle probabilità di rispondere alla terapia. Nella fattispecie, avere cellule citotossiche direttamente a contatto con le cellule tumorali e averne tante anziché poche, implica maggiori probabilità di rispondere all’immunoterapia».

Immunoncologia di precisione

«Oltre ad aver studiato le caratteristiche delle cellule tumorali nelle biopsie eseguite prima della terapia, ne abbiamo analizzato anche l’evoluzione nel contesto della pressione selettiva del trattamento – aggiunge Bianchini -. Nelle biopsie raccolte durante il trattamento neoadiuvante abbiamo visto che avere tante cellule citotossiche dopo il primo ciclo è associato a un’alta probabilità di eradicare il tumore con l’immunoterapia. Inoltre abbiamo notato che esistono tumori che, solo quando vengono trattati con l’immunoterapia, piano piano incrementano una proteina specifica, nota come CD15, sulle cellule tumorali che sembra associata a resistenza all’immunoterapia, potendo così rappresentare un potenziale nuovo bersaglio terapeutico».

La metodica usato nello studio non è applicabile alla pratica clinica, tuttavia i ricercatori mirano a mettere a punto un semplice test da utilizzare nel contesto clinico di routine per identificare quali tumori sono suscettibili di rispondere all’immunoterapia sulla base dei biomarcatori individuati.

La sottoanalisi nelle donne con mutazioni germinali

I tumori triplo negativi sono particolarmente diffusi nelle donne giovani, al di sotto dei 50 anni, e in chi presenta mutazioni germinali nei geni BRCA1 e BRCA2 (e in misura minore in altri geni come PALB2 e CHECK2). Tutte le pazienti coinvolte nello studio sono state sottoposte a un test genetico con un pannello per individuare mutazioni germinali di BRCA e altri geni di suscettibilità. Utilizzando queste informazioni sullo stato mutazionale, i ricercatori puntano ora a verificare se la presenza di alterazioni genetiche germinali possa influenzare la risposta all’immunoterapia, come segnala Bianchini. «Stiamo lavorando per chiarire come la presenza di mutazioni nei geni BRCA o in altri geni di suscettibilità possa influenzare da una parte l’ambiente immunologico del tumore, rispetto a chi non ha mutazioni, e dall’altra la risposta e il potenziale beneficio dell’immunoterapia. Ci auguriamo di avere nuovi dati da presentare in occasione del prossimo congresso mondiale di oncologia medica (ASCO)» conclude l’esperto.

Antonella Sparvoli

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