Tempi d’attesa in sanità: c’è chi non può permettersi di aspettare o rinunciare alle prestazioni

Uno dei pilastri del Servizio Sanitario Nazionale (SSN) è di garantire a tutti i cittadini tempi di accesso alle prestazioni sanitarie certi e adeguati alle necessità di ciascuno, salvaguardando i principi di appropriatezza, equità di accesso alle prestazioni, efficacia ed efficienza, correttezza e trasparenza. Per tale motivo è necessario che le diagnosi e le terapie non siano ingiustificatamente procrastinate, per non compromettere la prognosi e talvolta mettere a repentaglio la vita stessa. Nel contesto del dibattito in corso sui tagli alla sanità e sulla endemica mancanza di personale sanitario oggi si parla molto di liste e tempi di attesa, un tema di grande rilevanza per tutti i cittadini. Lo stesso Ministro della Salute l’ha posto di recente all’attenzione del Governo, del Parlamento e della Opinione Pubblica, anche se la questione non è nuova e la si sta affrontando da anni, nell’ambito del cosiddetto PNGLA (Piano Nazionale di Governo delle Liste di Attesa), con una articolata interlocuzione tra Istituzioni Sanitarie Nazionali (Ministero Salute, AGENAS, ISS) e Territoriali (Regioni/Province Autonome, ASL, Aziende Ospedaliere, Medici di Medicina Generale).

Una prima criticità è che esiste anche in tale ambito una insensata frammentazione e mancanza di coordinamento, a partire da quella informativa. Il Ministero Salute ha delegato alle singole Regioni – che di fatto gestiscono la Sanità nel nostro Paese – la responsabilità di definire i tempi di attesa delle prestazioni, i criteri per la loro riduzione, le azioni volte ad attuarli concretamente. In sostanza, si è rinunciato ad una “regia unica nazionale”, il che rende alquanto problematico comprendere la reale situazione nelle varie Regioni, in assenza di criteri e indicatori omogenei.

Una seconda criticità, connessa al punto precedente, è relativa ai LEA (livelli essenziali di assistenza): esiste una difformità nel recepimento dei LEA nazionali da parte delle Regioni – dovuta a politiche e strategie sanitarie diverse tra loro – e la loro stessa attuazione è altamente disomogena, come evidenzia il monitoraggio realizzato periodicamente da AGENAS. Ovviamente, in assenza di criteri univoci sulle prestazioni sanitarie fondamentali e prioritarie – che secondo il Titolo V dovrebbero essere definite dallo Stato -, è impossibile pianificare “tempi di attesa” che tengano conto della rilevanza e urgenza delle varie prestazioni, a maggior ragione in presenza di risorse umane, tecniche ed economiche sempre più limitate, sia a livello nazionale, sia a livello regionale.  

Una terza criticità è rappresentata dalla commistione, nel nostro Sistema Sanitario Nazionale/Regionale di modelli diversi e in parte in concorrenza tra loro: 

  • Prestazioni erogate all’interno delle strutture pubbliche tramite il sistema sanitario nazionale/regionale (SSN/SSR), a carico della finanza pubblica, con la eventuale compartecipazione alla spesa dei cittadini (“ticket”);
  • Prestazioni erogate all’interno delle strutture pubbliche tramite “intramoenia”, cioè con prestazioni offerte ai pazienti a pagamento, qualora essi vogliano scegliere direttamente lo specialista di fiducia;
  • Prestazioni erogate, all’interno delle strutture private, sia in regime di convenzione con il SSN/SSR, sia in regime privatistico, quest’ultimo favorito dalla crescita costante della Sanità Integrativa: Compagnie di Assicurazione, Fondi di Malattia, Casse Mutue di Aziende Private, Enti Pubblici, Enti del Terzo Settore.

Questo “modello sanitario ibrido” (pubblico e privato) ha nei fatti creato un’enorme e crescente distorsione nel sistema. Avendo facilitato progressivamente le “prestazioni a pagamento”, si sono create le condizioni per una differenziazione anche nelle liste di attesa. La stessa prestazione medica (esame diagnostico, visita specialistica, intervento chirurgico), addirittura con lo stesso professionista nella stessa struttura sanitaria (pubblica o privata) può essere ottenuta in “regime di solvenza” in pochi giorni, talvolta in poche ore (“signora, potrebbe venire nel pomeriggio?”), mentre nel “regime del SSN/SSR” i tempi di attesa possono arrivare a diversi mesi, talvolta superare l’anno. Di conseguenza si è creata una discriminazione tra pazienti/cittadini solventi (che pagano direttamente o tramite la Sanità Integrativa) e pazienti/cittadini non solventi, che devono scegliere, a seconda delle necessità e possibilità, se mettere mano ai propri risparmi personali o familiari, oppure rassegnarsi ai lunghi tempi di risposta del SSN/SSR. Purtroppo, molti cittadini con minori possibilità economiche sono costretti a rinunciare a prestazioni programmate o estemporanee, trascurando controlli che sarebbero necessari/opportuni per monitorare al meglio la propria salute. Al contrario, persone abbienti e/o con Sanità Integrativa possono usufruire, anche nei tempi di attesa, di risorse sanitarie di eccellenza – pubbliche e private in convenzione con il SSN/SSR -, contribuendo ad alimentare un sistema iniquo di accesso alla sanità: mutuati contro solventi, poveri contro ricchi. Non è un caso che il CUP (Centro Unico di Prenotazioni) Pubblico-Privato non sia stato realizzato uniformemente in tutte le Regioni e in quelle dove la componente privata è rilevante, come in Lombardia, viene differito continuamente nel tempo.

La mancanza di equità di accesso ai servizi sanitari dei cittadini si riflette anche nella modalità con cui si sono articolate sul territorio regionale e provinciale le varie strutture preposte alla salute, in particolare le strutture ospedaliere e le strutture di diagnostica (esami di laboratorio, diagnostica per immagini, ecc.). I tempi di attesa per le prestazioni sono anche la conseguenza di livelli di risorse e scelte di politica sanitaria regionale e locale, che hanno privilegiato a seconda dei casi la sanità pubblica o la sanità privata, la appropriatezza o la rapidità, l’equità di accesso o la bontà dei bilanci.  Nelle aree territoriali meno ricche (Sud e Centro Italia, province minori e lontane dai capoluoghi) la minore qualità e varietà delle strutture sanitarie per le prestazioni più rilevanti (alta diagnostica, interventi chirurgici, terapie innovative, ecc.) spingono i pazienti con patologie severe verso le regioni più attrezzate e le migliori strutture pubbliche e private convenzionate, grazie al diritto alla “mobilità sanitaria interregionale”. Se la migrazione sanitaria deriva dalla inadeguatezza, reale o percepita dai pazienti, dell’offerta sanitaria nel proprio territorio, essa ha dei riflessi sulle stesse prestazioni per i cittadini residenti nelle Regioni di attrazione (Lombardia, Emilia Romagna, Veneto): il pendolarismo dei pazienti extra-regionali determina un allungamento delle liste di attesa, oltre che una riduzione di offerta e di livello di servizio per i residenti, causata da una crescente offerta destinata ai “migranti”, che produce risorse importanti per le Regioni e le strutture attraenti.

Pur essendo i lunghi tempi di attesa un problema che tocca tutti i cittadini è sui malati cronici che essi diventano di estrema criticità. Le patologie croniche (malattie cardiovascolari, malattie respiratorie, diabete, patologie neurologiche, disturbi muscolo-scheletrici, tumori) comportano un numero elevato di visite di controllo e prestazioni diagnostiche ad intervalli di tempo prestabiliti e necessitano di essere programmate in anticipo, sia per offrire ai pazienti la migliore risposta assistenziale, sia per ridurre gli sprechi e ottimizzare le agende e le risorse sanitarie. Quindi, se per un verso tali patologie e pazienti assorbono mediamente più risorse rispetto ad altre patologie non ricorrenti, dall’altro su tale platea è possibile mettere in atto modelli organizzativi, gestionali e amministrativi in grado di offrire risposte efficaci e, nel contempo, razionalizzare le risorse necessarie. Inoltre, specie sui pazienti cronici, sarebbe necessario attuare quella integrazione tra strutture ospedaliere e medicina territoriale (Medici di Medicina Generale, Case di Comunità, Ospedali di Comunità), di cui tanto si parla, ad es. in rapporto ai fondi del PNNR, ma che ancora facciamo fatica a toccare con mano nella maggior parte delle Regioni italiane.

Una categoria ancora più specifica di pazienti cronici è costituita dai soggetti portatori di sindromi ereditarie, malati e sani a rischio di malattia, che più degli altri non possono permettersi di “aspettare”.  Per loro i protocolli internazionali e quelli nazionali prevedono una “sorveglianza intensificata” su tutti gli organi a rischio, che va modulata a seconda della sindrome, del soggetto (stato clinico, età, sesso) e della anamnesi familiare (casistica suggestiva). Ad es. i soggetti con la sindrome HBOC-BRCA dovrebbero cominciare già a 25-30 anni la sorveglianza periodica su mammella, ovaio, prostata e pancreas, quelli con la sindrome di LYNCH già a 30 anni quella su colon-retto, endometrio e ovaio. In alcuni soggetti, come i portatori della sindrome di Li Fraumeni e di Cowden, la sorveglianza su alcuni organi dovrebbe cominciare fin dalla pubertà. 

Queste persone hanno livelli di rischio da 4 fino a 40 volte superiori a quelli della popolazione normale. Spesso tra loro l’insorgenza della malattia è più precoce rispetto alla popolazione normale, talvolta sotto i 40 anni e in taluni casi, sotto i 30. Per tale motivo la sorveglianza intensificata, finalizzata alla diagnosi precoce, prevede esami diagnostici serrati (ogni 6 mesi, massimo un anno) e visite specialistiche annuali, massimo biennali. Il mancato rispetto dei tempi nella diagnostica, negli interventi (chirurgia di riduzione del rischio, come la mastectomia bilaterale profilattica, la annessiectomia profilattica, la isterectomia profilattica, la gastrectomia profilattica), nelle terapie (chemioterapia, medicina di precisione, immunoterapia) espone tali soggetti ad un alto rischio di ammalarsi, di riammalarsi (recidive) o di peggioramento della prognosi (interventi e cure più invasive e debilitanti, effetti collaterali severi a livello fisico e mentale). Di conseguenza, nei soggetti ad alto rischio il tempo è una variabile critica e non è differibile se non mettendo a forte rischio la salute. 

Purtroppo, anche per queste persone ad alto rischio genetico il quadro del sistema sanitario è estremamente frammentato e differenziato: solo una minoranza delle regioni ha approvato specifici PDTA rivolti a tali soggetti, senza i quali le prestazioni in essi previste non vengono inserite nei LEA (livelli essenziali di assistenza). Poiché i portatori di sindromi ereditarie sono perfettamente consapevoli dei propri rischi, in molti casi, indipendentemente dalle condizioni economiche di appartenenza, si ricorre alla “scorciatoia” delle visite private e di quelle intramoenia, a maggior ragione per la possibilità di scegliere il proprio medico di fiducia. Ugualmente, molti pazienti del Centro-Sud Italia o delle province più periferiche, preferiscono rivolgersi alle strutture ospedaliere primarie, spesso private convenzionate, delle maggiori città del Nord Italia. In queste strutture, talvolta si riesce ad essere “presi in carico” in regime di SSN/SSR, almeno per la parte di “routine”, legata ai programmi di follow-up e sorveglianza abituali. Ma di fronte ad una evenienza dubbia (un marcatore più alto del solito, un sospetto nodulo, perdite ematiche, ecc.) nasce la necessità di una prestazione urgente, che difficilmente può essere ottenuta attraverso la corsia del SSN/SSR. Quindi tali persone, proprio per la loro condizione genetica, si vedono costrette a sopportare elevate spese sanitarie (prestazioni, viaggi, soggiorni), per rispettare i propri protocolli e soprattutto per mettersi in sicurezza.

La Fondazione Mutagens è fortemente impegnata perché i diritti alla salute di tali soggetti ad alto rischio genetico vengano presi nella dovuta considerazione, benché si tratti di una quota relativamente contenuta, circa un milione di persone in Italia, poco più dell’1,5% della popolazione. Certamente i tempi di attesa sono un problema enorme ma la loro soluzione è necessariamente subordinata all’inserimento nei LEA, in ogni Regione, di tutte le prestazioni previste dai protocolli clinici più completi e aggiornati. In questo momento stiamo partecipando al Tavolo di Lavoro sulle Linee Guida dei Tumori Ereditari, che dovrebbero mettere un punto fermo nella “presa in carico” di tali soggetti. Inoltre, abbiamo in corso interlocuzioni continue con le Istituzioni Sanitarie, con il fine di concorrere a formalizzare al meglio e in modo uniforme i PDTA regionali per soggetti ad alto rischio ereditario. Infine, poiché i pazienti sono in cura presso le strutture ospedaliere, con l’iniziativa “Centri Riconosciuti” stiamo sollecitando direttamente le strutture ospedaliere primarie (IRCCS, Aziende Ospedaliere Universitarie) a creare “percorsi aziendali” ad hoc per tali soggetti, con team multidisciplinari (GOM), agende dedicate, infermieri/case manager in grado di garantire una efficace ed efficiente presa in carico. Per i portatori di sindromi ereditarie la qualità e la tempestività delle diagnosi, delle terapie, della prevenzione sono una questione vitale: noi e le nostre famiglie non ci possiamo assolutamente permettere di aspettare o peggio ancora di rinunciare alle prestazioni necessarie a tenerci in sicurezza.

© 2022 Fondazione Mutagens ETS. Tutti i diritti riservati.

Leggi altre notizie