Prevenzione oncologica nelle persone transgender

Una recente rassegna fa il punto sulle conoscenze in ambito oncologico sulle differenze di identità di genere, segnalando la necessità di strategie efficaci per migliorare l’assistenza a questi pazienti

Ci sono ancora molte lacune nell’assistenza alla persone transgender e gender non conforming. A rivelarlo è una recente rassegna, pubblicata sulle pagine della rivista JAMA Oncology, firmata da numerosi ricercatori italiani. Dall’analisi degli studi disponibili sull’argomento emerge un quadro di discriminazione e disagio che rappresenta un grave ostacolo alla prevenzione, allo screening e alle cure per le persone transgender o di genere diverso. Approfondiamo l’argomento con due degli autori, Alberto Giovanni Leone, primo firmatario, oncologo presso la Fondazione IRCCS Istituto nazionale tumori di Milano, e Filippo Pietrantonio dell’Oncologia medica gastroenterologica dell’Istituto dei tumori e membro del direttivo nazionale AIOM, che ha coordinato il lavoro.

Alberto Giovanni Leone

Focus su prevenzione e screening

«La rassegna è incentrata sulle conoscenze attuali nel campo dell’oncologia sulle differenze di identità di genere – premette Alberto Giovanni Leone -. Abbiamo cercato di riordinare i pochi dati presenti in letteratura. Ci siamo concentrati sulle differenze soprattutto in termini di prevenzione primaria e secondaria, considerando sia i fattori di rischio modificabili sia l’aderenza agli screening. Abbiamo visto che nella popolazione transgender, soprattutto nei più giovani, c’è una certa tendenza ad avere un consumo di tabacco ed alcolici più elevato e quindi una maggiore esposizione a questi fattori di rischio rispetto alla popolazione cisgender».

Per quanto riguarda, invece, il tema delle infezioni sessualmente trasmissibili, è ben noto che l’HIV ha un’incidenza molto più elevata negli individui transgender, fenomeno determinato da diversi fattori socio-economici di emarginazione e povertà che colpiscono questo gruppo di persone. «Per quanto riguarda il papilloma virus (HPV) non ci sono invece dati sufficienti, ma sappiamo che la popolazione transgender è ad alto rischio, per cui la prevalenza dell’HIV è quantomeno non inferiore rispetto a quanto osservato negli individui cisgender» puntualizza Leone.

Gli effetti degli ormoni

Molti individui transgender assumono una terapia ormonale nel momento in cui decidono di intraprendere un percorso di transizione. Resta però una questione aperta la risposta alla domanda se questi ormoni possano incidere in qualche modo sul rischio di sviluppare tumori. Inoltre non ci sono ancora dati sufficienti per dire se esistano delle controindicazioni in relazione al trattamento oncologico. «A causa dei pochissimi dati disponibili non sappiamo se la terapia ormonale sia un fattore di rischio – spiega Leone -. Sembra esserci solo un ruolo non ben definito per il ciproterone acetato, un progestinico usato in Europa nel percorso di transizione da maschio a femmina, la cui assunzione a lungo termine, se condo alcuni dati, sembrerebbe correlata a un aumento dell’incidenza di tumori benigni dell’encefalo, meningiomi e prolattinomi. Inoltre, secondo un recente studio olandese, le donne transgender avrebbero un rischio di cancro al seno che aumenta anche di 46 volte rispetto agli uomini cisgender. Quindi rispetto al sesso assegnato alla nascita, l’identità di genere inciderebbe parecchio. Tuttavia non abbiamo i dati per dire che questo fenomeno sia dovuto all’assunzione di ormoni».

Poca informazione sugli screening

Dalla rassegna, così come da altre due indagini condotte con l’Associazione italiana di oncologia medica (AIOM) sia sui transgender sia sugli oncologi, emerge che la popolazione transgender aderisce meno ai programmi di screening, cosa che poi influenza gli esiti di malattia. «La discriminazione nei confronti delle persone transgender e gender non conforming va ad incidere sulle informazioni che arrivano a queste persone, cosa che le porta a non partecipare agli screening e ai programmi di prevenzione oppure ad accedere in ritardo ai centri di cura. C’è ancora molta strada da fare per eliminare le barriere nell’accesso alla prevenzione e alle cure per i tumori. Senza contare che mancano percorsi accademici o corsi universitari per formare i medici su questi temi» fa notare Leone.

Filippo Pietrantonio

Strategie per abbattere le barriere

«Per ridurre le disparità di accesso all’assistenza e agli screening anti-cancro stiamo cercando di agire su due livelli: uno istituzionale, andando a redigere delle raccomandazioni per la gestione del paziente oncologico transgender sotto l’egida dell’AIOM, e l’altro educazionale per sensibilizzare il personale ospedaliero, dagli addetti all’accettazione ai medici» segnala Leone.   

«L’AIOM ha affrontato l’argomento della salute e della prevenzione in oncologia delle persone transgender in maniera molto pratica. Non soltanto stabilendo che c’è la necessità di occuparsene, ma anche con un programma nazionale che è partito dalla rassegna appena pubblicata – aggiunge Pietrantonio -. Questo lavoro, insieme alle due indagini di AIOM su transgender e oncologi, è servito per capire quali sono le aree tematiche su cui intervenire e successivamente agire anche a livello di politica sanitaria. Per una volta l’Italia non è rimasta indietro su questi argomenti, ma è stata un motore molto propositivo. Sperando poi che i buoni propositi non rimangano confinati a livello di singole unità ospedaliere virtuose, ma possano costituire una guida per tutto il territorio nazionale».

L’importanza della ricerca

Qualche primo passo è stato fatto, ma ci sono altri ambiti su cui si vorrebbe intervenire nel tempo, a partire da quello della ricerca. «Sarebbe interessante raccogliere dati prospettici su orientamento sessuale e identità di genere per poi capire come e se incidano sugli esiti di malattia» dice Leone.

Allo stato attuale è però molto difficile fare ricerca sulla popolazione transgender come spiega Pietrantonio. «Quando accediamo alle strutture ospedaliere, i dati demografici che vengono raccolti non includono l’identità di genere e l’orientamento sessuale. Questo rende difficoltoso fare ricerca e raccogliere dati, cosa fondamentale per capire poi quali sono gli esiti, i trattamenti, le criticità. Sicuramente bisognerà lavorare anche su questi aspetti: c’è una varietà individuale che comprende anche l’orientamento sessuale e l’identità di genere. Oggi non si può più prescindere dal considerare questi aspetti nell’ottica della medicina personalizzata che parta dalla persona e non solo dal tumore e dalle sue caratteristiche molecolari. Le informazioni sull’identità di genere e l’orientamento sessuale, previo consenso del paziente, andrebbero raccolte al pari di altri dati sulle abitudini e la storia personale e familiare perché fanno parte del bagaglio di valutazione del paziente» conclude Pietrantonio.

Antonella Sparvoli

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