PARB inibitori: nuova luce sul loro meccanismo

Uno studio pubblicato su Nature Communications fornisce chiarimenti sul funzionamento di questi farmaci, tra i più utilizzati nella Sindrome del cancro ereditario della mammella e dell’ovaio (HBOC)

Nonostante il crescente successo dei PARP inibitori nel trattamento di diverse forme tumorali, ci sono ancora aspetti sconosciuti relativi alla loro potenza ed efficacia che, se meglio compresi, potrebbero portare a miglioramenti nel loro impiego. Ed è proprio questo l’obiettivo che si sono posti alcuni ricercatori dell’University of Colorado, autori di uno studio pubblicato di recente sulla rivista Nature Communications.

PARP inibitori e mutazioni BRCA

I PARP inibitori sono stati testati inizialmente contro i tumori legati a mutazioni dei geni BRCA 1 e BRCA 2, che interferiscono con la capacità di riparazione del DNA delle cellule tumorali. Queste mutazioni, oltre ad essere associate a un aumentato rischio di tumori alla mammella e all’ovaio nelle donne, predispongono anche ad altre forme di cancro, in particolare prostata, pancreas e melanomi, oltre al tumore della mammella maschile.

I PARP inibitori hanno come bersaglio una famiglia di proteine chiamate PARP [(Poli-(ADP-ribosio)-polimerasi] coinvolte in diversi processi tra cui la riparazione del DNA e l’apoptosi (ovvero la morte cellulare programmata). “Le proteine PARP sono le prime a rispondere quando si verifica un danno nel DNA: lo individuano e poi inviano segnali ad altre proteine per ripararlo” spiega Johannes Rudolph, uno degli autori dello studio, ricercatore del Department of Biochemistry dell’University of Colorado.

Poiché sia PARP sia BRCA sono coinvolti nei processi di riparazione del DNA nelle cellule tumorali, disattivando la prima risposta di PARP in chi non presenta un BRCA funzionante, induce un annullamento dei meccanismi di riparazione del DNA nelle cellule neoplastiche con la conseguente morte delle cellule malate. Tuttavia le proteine PARP non agiscono da sole. Si è infatti scoperto che un’altra proteina chiamata HPF 1 si “attacca” a PARP in un punto preciso in cui tutte le azioni hanno luogo, collaborando quindi strettamente con PARP nella sua risposta primaria.

Proteine “collaboratrici”

Gli autori del nuovo studio hanno sviluppato una tecnica per vedere quanto saldamente gli attuali PARP inibitori si legano al loro bersaglio all’interno delle cellule per valutarne potenza ed efficacia sia in presenza sia in assenza della proteina collaboratrice HPF1. Ebbene i risultati mostrano che in alcuni casi i farmaci agivano nello stesso modo con o senza HPF1, ma in altri la presenza della proteina collaboratrice ha fatto la differenza. Per esempio ciò è accaduto con il farmaco Olaparib.

“Questo dati suggeriscono che i futuri PARP inibitori potrebbero trarre vantaggio da questa interazione per essere ancora più potenti – osserva Rudolph -. Se vogliamo sviluppare e migliorare l’efficacia dei PARP inibitori, dobbiamo cercare di comprendere meglio perché e come essi agiscano realmente, come abbiamo tentato di fare nel nostro studio”.

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