Le sindromi ereditarie come acceleratore della oncologia mutazionale e della medicina di precisione

E’ ampiamente acquisito che tutti i tumori in tutti i pazienti siano associati a specifiche mutazioni genetiche negli organi affetti (mutazioni somatiche). Ciò sta comportando un vero e proprio cambiamento nell’approccio diagnostico e terapeutico, guidato in precedenza nella fase diagnostica dal “modello istologico” e in quella terapeutica dai “farmaci citotossici chemioterapici”, che frenano la proliferazione cellulare, colpendo sia le cellule tumorali sia quelle sane, da cui i noti effetti collaterali. Il nuovo “modello mutazionale” si fonda proprio sulle mutazioni somatiche: queste vengono evidenziate tramite la profilazione molecolare dei tumori (pannelli multigene NGS), volta ad attribuire a ciascuno di essi una precisa “carta di identità”, presupposto per la selezione dei farmaci oncologici (esistenti e potenziali) più appropriati per quella specifica patologia, quello specifico paziente, in quello specifico momento.
Fino a qualche anno fa gli oncologi erano focalizzati solo sulle mutazioni somatiche per la identificazione di potenziali bersagli terapeutici al fine di migliorare l’efficacia delle cure. Ma nei soggetti portatori di sindromi ereditarie – le cui neoplasie incidono per circa il 10-15% sul totale dei nuovi casi annui – alcune delle mutazioni somatiche possono derivare dalla presenza, nel DNA di tali pazienti, di “mutazioni germinali” (varianti patogenetiche costituzionali), che costituiscono la causa principale della malattia (sindromi ereditarie monogeniche). Ad oggi sono noti oltre 170 di tali geni, denominati CPGs (geni di suscettibilità al cancro), che fanno riferimento a oltre 50 diverse sindromi ereditarie correlate ai tumori e che possono conferire ai loro portatori un maggior rischio da 2 fino a 40 volte, a seconda della sindrome (HBOC-BRCA, Lynch-MMR, Li Fraumeni-TP53, Cowden-PTEN, ecc.) e degli organi coinvolti (mammella, ovaio, colon-retto, endometrio, prostata, pancreas, stomaco, ecc.). Fino a qualche anno fa l’identificazione di mutazioni CPGs aveva scarsa rilevanza terapeutica per il paziente, non esistendo ancora alcuna opportunità terapeutica in caso di loro presenza. Dopo i primi PARP inibitori approvati a fine 2014 per il trattamento del carcinoma ovarico in donne portatrici di varianti germinali BRCA, si sono susseguiti una serie di nuovi farmaci (a bersaglio molecolare e immunoterapici) destinati in modo specifico ai soggetti portatori di sindromi ereditarie.

Oggi il ricorso crescente alla profilazione molecolare dei tumori a fini terapeutici, favorita dalla più ampia disponibilità di farmaci innovativi (sia per mutazioni somatiche sia per varianti germinali) consente di identificare mutazioni somatiche sul tumore in geni che potrebbero essere alterati anche nella linea germinale, condizione che va confermata da una specifica consulenza oncogenetica (CGO) e da un test genetico su sangue periferico. L’identificazione di alterazioni ereditarie (germinali) a carico di CPGs nei pazienti affetti consente non solo di farli accedere ai farmaci di precisione, ma di analizzarne la presenza nei familiari sani, di programmare per tutti i portatori (malati e sani a rischio) piani di sorveglianza intensificata (per esempio, diagnostica strumentale e biomarcatori per il tumore della mammella, dell’ovaio, della prostata o del colon) e strategie di prevenzione chirurgica e farmacologica per gli organi sani nei pazienti e nei loro familiari portatori. Oggi, il riconoscimento della presenza di mutazioni CPGs nei tumori ha quindi importanti implicazioni terapeutiche e prognostiche, relativamente alla probabilità di recidiva o allo sviluppo di nuovi tumori primitivi o secondari. Allo stato attuale, i percorsi diagnostici per l’identificazione di mutazioni actionable (mutazioni clinicamente informative per prognosi e trattamento) e quelli per la valutazione del rischio genetico sono distinti e confinati in ambiti specialistici differenziati: oncologi, patologi, biologi molecolari a fini terapeutici nei primi, genetisti e chirurghi a fini preventivi nei secondi. Ovviamente i due percorsi sono destinati a confluire, almeno con riguardo ai pazienti in cui è altamente probabile la presenza di una sindrome ereditaria. E’ auspicabile che in tal caso i test mutazionali eseguiti sul tumore per l’identificazione dei geni actionable (per prognosi e trattamento) comprendano anche i geni CPGs, in modo che l’esecuzione dei test genetici permetta di acquisire simultaneamente e alla diagnosi tutte le informazioni rilevanti, sia per la stratificazione terapeutica sia per la definizione del rischio genetico. Ad es. nel caso di un tumore al seno triplo negativo la presenza di una variante patogenetica potrà indirizzare la chirurgia verso la mastectomia bilaterale oncologica e profilattica sul seno sano controlaterale (in presenza di variante BRCA1) oppure la semplice quadrantectomia monolaterale conservativa. Oppure la presenza di un tumore al colon-retto con difetti del MMR (sindrome di Lynch), potrà suggerire un primo approccio terapeutico (immunoterapia) di riduzione del tumore, seguito solo successivamente dall’intervento chirurgico; al contrario, nel caso di paziente con lo stesso tumore di tipo sporadico l’approccio chirurgico in prima istanza continuerà ad essere quello preferibile. In sostanza anche nella fase diagnostica che precede la presa in carico terapeutica del paziente, è fondamentale un approccio sempre più interdisciplinare, in cui team di specialisti con competenze complementari (patologi, genetisti, oncologi, chirurghi, senologi, ginecologi, urologi, radiologi, psicologi: Gruppi Oncologici Multidisciplinari sindromi ereditarie) possano disporre di una visione completa e integrata del paziente per accompagnarlo al meglio nel suo percorso di cura, follow-up, prevenzione.
Il passaggio dal modello istologico a quello mutazionale nella cura di tutti i tumori implica un salto enorme nella qualità e quantità dei dati e delle informazioni da gestire e un cambiamento profondo anche negli aspetti gestionali e organizzativi. Si tratta di creare un nuovo approccio complessivo – dagli screening sui soggetti asintomatici, alla diagnosi precoce, alla cura, alla prevenzione – che necessita della collaborazione di tutti gli operatori sanitari. Inoltre, per quanto riguarda i soggetti ad alto rischio eredo-familiare, è preferibile una presa in carico più specifica, da parte di specialisti in materia, in quanto la diagnostica e le terapie possono comportare strategie differenziate rispetto ai tumori sporadici. Anzi, nel contesto più ampio della transizione verso la oncologia mutazionale, la attuazione di tale approccio sistematico sui soggetti ad alto rischio eredo-familiare costituisce una grande opportunità per il progresso nella lotta contro tutti i tumori. Infatti, l’esistenza di una correlazione diretta, in tale popolazione, tra alterazioni genetiche e malattie e l’età media più precoce di insorgenza dei tumori rispetto alla popolazione normale ne fanno una enorme “miniera di conoscenza”, che può consentire rapidi progressi nelle conoscenze scientifiche e cliniche. Inoltre, ancor più rispetto ai tumori sporadici, in quelli ereditari si possono dispiegare risorse importanti nella prevenzione dei tumori, sia in quella primaria (chirurgia profilattica e chemio prevenzione) sia in quella secondaria (diagnosi precoce). I soggetti ad alto rischio ereditario sono i candidati ideali, ad es., per la sperimentazione su ampia scala di nuove metodiche non invasive di diagnosi precoce, che potranno essere successivamente trasferite su soggetti a maggiore rischio per cause non genetiche (grandi fumatori, diabetici e obesi, lavoratori a contatto con sostanze inquinanti). Se è vero, come sostiene il Piano Europeo di Lotta contro il Cancro, che oltre il 50% di tutti i tumori sono prevenibili, tale percentuale sarebbe certamente ancora superiore nei soggetti ad alto rischio genetico, che possono essere facilmente “identificabili”, sia come singoli individui sia come famiglie di appartenenza.

In sintesi, un focus sui portatori di sindromi ereditarie consentirebbe finalmente di costruire la “seconda gamba” nella lotta ai tumori: accanto a quella della “cura dei malati” anche quella della “prevenzione dei sani”, che include la prevenzione di tumori successivi nei soggetti già malati. Il pregio di tale seconda gamba, al di là del valore etico e sociale della prevenzione di malattie spesso aggressive, invalidanti, in età precoce, è certamente il rapporto costi benefici: i risparmi di costi derivanti dalla prevenzione dei tumori e dalla maggiore efficacia e minore durata delle cure sarebbero certamente superiori agli investimenti per la creazione di una infrastruttura e di un approccio sistematico per la prevenzione. Focalizzando gli sforzi sulla prevenzione primaria e secondaria, i maggiori costi sarebbero prevalentemente orientati alla diagnostica (test genetici e di profilazione genomica), alla prevenzione chirurgica (quasi sempre risolutiva per la riduzione ed eliminazione del rischio), alla medicina di precisione (maggiore efficacia e quindi minore durata delle terapie). Mentre sappiamo che oggi la fetta più consistente dei costi nella gestione dei tumori è attribuibile alle terapie oncologiche, sempre più costose e spesso di lunga durata.

La Fondazione Mutagens è fortemente impegnata, ai diversi livelli dell’Ecosistema Salute, per l’accelerazione di tale prospettiva affascinante della presa in carico dei soggetti portatori di sindromi ereditarie:
• con le strutture ospedaliere primarie per la formalizzazione dei PDTA aziendali per soggetti ad Alto Rischio eredo-familiare e dei GOM Sindromi Ereditarie;
• con le Regioni e le Reti Oncologiche regionali per la approvazione di PDTA Regionali Alto Rischio eredo-familiare, che consentano di ottimizzare sul territorio, anche tra strutture diverse (Centri Hub & Spoke) la presa in carico dei pazienti, limitandone al minimo la mobilità e i disagi e garantendo una “gestione coordinata”;
• con le Istituzioni Sanitarie Nazionali e Regionali per la sperimentazione di Percorsi di Screening e Diagnosi Precoce su soggetti sani asintomatici, valorizzando il rapporto tra medicina territoriale (MMG, Case di Comunità, Ospedali di Comunità) e strutture ospedaliere di riferimento;
• con gli organi regolatori (Commissione LEA, AIFA) per la rapida approvazione di nuovi test e farmaci innovativi e per la rimborsabilità omogenea in tutto il Paese delle prestazioni previste dai PDTA Alto Rischio;
• con le società scientifiche per l’aggiornamento costante delle Linee Guida Nazionali dei Tumori Ereditari e delle Sindromi Ereditarie;
• con le aziende farmaceutiche e di scienze della vita per accelerare gli investimenti in tale ambito e favorire la sperimentazione continua, per validare i nuovi approcci diagnostici e terapeutici nell’interesse di pazienti e operatori sanitari;
• con i media per accrescere la consapevolezza della opinione pubblica, dei MMG, degli operatori sanitari e dei politici sulla specificità e sulla rilevanza di tale popolazione ad alto rischio, anche a vantaggio, in prospettiva di tutti i pazienti e di tutti i cittadini.

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