La consapevolezza dei portatori di sindromi ereditarie tra esperienza personale e valore collettivo 

Per ogni essere umano avere a che fare con le proprie fragilità non è una cosa semplice. Ancora più difficile quando tali fragilità riguardano la nostra salute e alcune patologie, come i tumori, per le quali non vi è la certezza di guarigione. Le parole pronunciate di recente da Michela Murgia sul suo carcinoma renale avanzato e rilanciate da tutti i media hanno scosso gran parte dell’opinione pubblica e offerto qualche spunto di riflessione anche a noi portatori di sindromi ereditarie, in particolare sul tema del rapporto tra esperienza personale e dimensione collettiva.

Nell’ambito più generale della condizione dei pazienti oncologici l’esperienza della community della Fondazione Mutagens è esemplare. Infatti, oggi possiamo contare su un Gruppo Privato Facebook di quasi 600 persone e su tre chat Whatsapp (HBOC-BRCA, LYNCH e RARE) di altre 150 persone in totale. Su questi canali le persone, portatrici della stessa sindrome ereditaria e di sindromi ereditarie diverse, condividono informazioni, notizie e conoscenze sulla materia e si confrontano quotidianamente tra loro, chiedendo e offrendo pareri e consigli, non solo su aspetti strettamente medici e clinici (gli interventi, le terapie, gli ospedali, gli specialisti di riferimento, la pianificazione della genitorialità, la alimentazione e l’attività fisica) ma anche su altri più personali, come il rapporto con i propri cari, specie i figli e il partner, quello con gli amici e colleghi di lavoro, le implicazioni economiche delle sindromi e delle malattie (accesso alle prestazioni, esenzioni dal ticket, spese di viaggio e trasferta, invalidità e altri benefici assistenziali, permessi di lavoro).

In generale, la condizione dei pazienti oncologici non riguarda solo la parte strettamente biologica ma coinvolge anche la loro sfera mentale, emotiva e relazionale. Tra di essi una situazione del tutto particolare è quella dei portatori di sindromi ereditarie, che presentano nel loro DNA delle alterazioni che comportano un livello elevato di rischio nell’arco della vita, che può essere maggiore da 2 a 40 volte, a seconda della sindrome e degli organi associati, rispetto alla popolazione normale, cioè senza tali specifiche mutazioni (varianti patogenetiche).

Una prima questione di rilievo per loro è come affrontare la condizione di portatore, dopo averne ricevuto la diagnosi attraverso il test genetico. Tale scoperta arriva spesso solo dopo un tumore, oppure, in quanto familiari di un portatore già affetto, prima della malattia. Naturalmente il vissuto delle persone malate e di quelle ancora sane a rischio di malattia è profondamente diverso: le prime hanno già potuto sperimentare sulla propria pelle le conseguenze di una sindrome ereditaria; le seconde, specie se hanno rapporti abituali con familiari affetti (genitori, figli, fratelli e sorelle), devono imparare a fronteggiare il naturale stato di ansia di una probabile malattia. Certamente le varie personalità degli individui inducono reazioni diverse dopo il ricevimento della diagnosi genetica. Ma il vissuto di molte persone portatrici conferma che “aprirsi agli altri” (con una cerchia che può essere più o meno ampia a seconda del proprio carattere o della propria situazione familiare, lavorativa e sociale) è comunque utile per acquisire una maggiore consapevolezza e ridurre i propri timori. Ad es. la scoperta che le alterazioni genetiche non sono così rare come si potrebbe pensare inizialmente può contribuire a ridurre la paura o la vergogna di una condizione erroneamente ritenuta esclusiva. Se manteniamo private le nostre fragilità non avremo mai l’opportunità di scoprire quante altre persone esistono, più o meno vicine a noi, che hanno vissuto e stanno vivendo una situazione identica o simile. 

A tale proposito esiste un motivo essenziale per far emergere tale condizione. Proprio perché le sindromi ereditarie si trasmettono all’interno delle famiglie, le prime persone che ne siano consapevoli, dopo il test genetico, dovrebbero informare tempestivamente tutti i congiunti (del ramo familiare da cui si può essere trasmessa la mutazione), in modo da favorire lo “screening a cascata”, volto ad appurare chi è portatore e chi non lo è. In passato – ma anche oggi in taluni contesti culturali, sociali, geografici – la paura dello “stigma” da parte di chi riceveva tale diagnosi, frenava questo “outing familiare”, senza considerare che la identificazione dei soggetti portatori, specie se ancora sani, costituisce il passo imprescindibile per ogni azione di prevenzione. Quindi, in un certo senso, il sacrificio di alcuni (che si sono ammalati a causa di una sindrome genetica), se accompagnato da una generosità a rendere pubblica tale condizione tra i propri familiari, può produrre per loro un enorme beneficio di salute: evitare la malattia, attraverso interventi profilattici sugli organi a rischio, e ricevere migliori cure, grazie a diagnosi più precoci e farmaci più personalizzati (parp inibitori, anticorpi farmaco-combinati, immunoterapia).

Ma c’è di più. Le testimonianze raccolte tra i membri della community Mutagens dimostrano che in molti casi proprio l’accettazione della sindrome ereditaria, la rivelazione ai propri familiari, alla cerchia di amici o ad un pubblico più ampio (ad es. attraverso l’esposizione sui social) hanno dato avvio ad una nuova rinascita personale, grazie al coraggio trovato per affrontare cambiamenti radicali e positivi nella propria vita, talvolta anche sorprendenti. Ad es. alcune persone hanno cambiato completamente lavoro, dedicandosi ad attività più motivanti o che lasciassero più tempo per sé e i propri cari, altre si sono buttate nello sport, vincendo la propria pigrizia, quasi tutte si sono dedicate in misura maggiore alla propria salute, adottando regimi alimentari, attività fisiche e olistiche, stili di vita più salutari. Quindi, talvolta è proprio la consapevolezza di una fragilità o di un disagio personale che ci offre la forza per tirare fuori il meglio di noi stessi, a maggior ragione se troviamo persone con esperienze simili che ci fanno intravvedere la possibilità di cambiare in positivo la nostra vita. 

Ecco perché la scelta di rivelare agli altri anche le parti più critiche e intime della nostra esistenza può costituire un passo importante per accrescere la autostima, la quale non si alimenta solo con i punti di forza ma anche con quelli di debolezza. Certamente non è così semplice per tutti, talvolta sono necessari aiuti esterni e molto tempo, ma alla fine questo percorso può servire a riprenderci in mano una prospettiva di vita, partendo dalla accettazione piuttosto che dal rifiuto di un dato di realtà. Talvolta non ci rendiamo conto che mentire a sé stessi e omettere agli altri delle verità scomode su di noi nel tempo può assorbire energie e farci del male, più di quanto non si possa pensare inizialmente.

Nella accettazione di una patologia genetica occorre prendere atto che noi non abbiamo nessuna colpa e quindi non ha alcun senso provare vergogna. Le sindromi ereditarie costituiscono una parte integrante del nostro DNA: le ereditiamo da uno dei nostri genitori (solo raramente da entrambi), le possiamo trasmettere ai nostri figli e nipoti (con una probabilità del 50% mediamente) e in un certo senso sono esse stesse una componente della nostra identità. Certamente sono, rispetto alle persone normali, la causa scatenante di probabili patologie nel corso della vita; le varianti patogenetiche associate ai tumori non sono confrontabili con le infinite varianti benigne che ci possono conferire un determinato colore degli occhi, una certa fisicità e fisionomia, un determinato carattere, ma sono anch’esse espressione di una specificità, cioè di una condizione “rara” e quindi anche “preziosa”. Sappiamo che la rarità può essere anche una virtù: i portatori di sindromi ereditarie sono oltre 1.000.000 di persone in Italia, quindi non poche, ma rappresentano comunque poco più del 2% della popolazione italiana: quindi certamente siamo “rari” rispetto al 98% che non è afflitto da tali alterazioni. Talvolta nelle conversazioni tra “BRCA mutati”, sapendo che due bellissime donne come Angelina Jolie e Bianca Balti ne sono portatrici, ci piace sostenere, senza alcuna evidenza scientifica, che “il BRCA è il gene dei belli” (in verità usiamo un’espressione più colorita) e lo facciamo consapevolmente anche per sdrammatizzare ed esorcizzare la nostra condizione di rischio, guardando ai suoi risvolti positivi. Se poi queste “persone rare” si incontrano tra loro, scoprono di non essere così sole, trovano in altre le stesse paure, preoccupazioni ma anche la possibilità di affrontare e risolvere i problemi comuni, ecco che paradossalmente la sindrome può diventare perfino un elemento di orgoglio, come in generale avviene tra persone speciali, che si distinguono dalla maggioranza degli altri.

Nell’ambito della nostra comunità di portatori spesso si parla di speranza e di resilienza, talvolta anche a sproposito. La speranza la puoi avere o non avere e dipende dalla tua specifica situazione, ma anche dalla tua natura, dalla tua visione sull’esistenza e anche dalle tue convinzioni religiose. In ogni caso è molto importante come la si alimenta, cioè cosa facciamo soggettivamente e collettivamente per fortificarla. C’è una grande differenza tra la rassegnazione passiva ad una diagnosi genetica (“che sfiga, proprio a me!”) e la reazione attiva a fare il possibile per vivere al meglio, “nonostante la sindrome” (“e adesso cosa posso fare?”).  Ebbene, noi portatori di sindromi ereditarie in generale siamo molto attivi, ci diamo un gran da fare per informarci, documentarci, prepararci a fronteggiare al meglio ogni possibile evenienza. Il confronto continuo con tanti altri pazienti, i medici specialisti, i rappresentanti delle istituzioni sanitarie, la stampa e i media ci consente di affermare, con una certa fierezza, che mediamente abbiamo una grande consapevolezza di noi: siamo molto informati sugli aspetti genetici e clinici, conosciamo bene, per vissuto personale e familiare, le loro implicazioni, i rischi e le modalità per ridurli. Insomma, siamo pazienti esperti e talvolta anche problematici per i nostri interlocutori, che sono costretti ad essere preparati e convincenti per guadagnare la nostra stima e fiducia. Questa consapevolezza rappresenta un grande valore: non solo a livello individuale, per sé e i propri familiari, ma anche per la comunità più ampia dei portatori che può beneficiare di tali esperienze e conoscenze individuali per trasformarle in “valore sociale collettivo””, specie quando il sistema sanitario e assistenziale non riesce a dare risposte adeguate alle loro necessità. 

Per mettere a sistema e sfruttare l’esperienza dei singoli pazienti e di categorie specifiche di pazienti è fondamentale il ruolo delle organizzazioni di pazienti. La Fondazione Mutagens prevede nella sua missione di costituire un “collettore” di istanze individuali che possano tradursi in un valore per la nostra comunità di persone (ma anche per altri pazienti con bisogni simili e prossimi), in modo da offrire un contributo concreto e mirato al miglioramento della presa in carico e della ricerca in questo ambito. Ecco perché, a distanza di tre anni dalla nostra nascita, stiamo lavorando alacremente per diventare un interlocutore autorevole e credibile sia del mondo sanitario  e scientifico, sia di quello politico e istituzionale. Non certo per rivendicare diritti di rappresentanza fini a sé stessi o per ricevere l’illusoria soddisfazione di essere invitati a eventi istituzionali importanti (talvolta i pazienti vi vengono coinvolti più per motivi di opportunità politica o per paternalismo, che per una reale volontà di ascolto e collaborazione su un piano paritetico), ma per mettere a disposizione della collettività le conoscenze che derivano direttamente dalle nostre esperienze personali e familiari. 

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