Il peso psicologico delle sindromi ereditarie di predisposizione ai tumori

Preoccupazioni, senso di colpa, rabbia, perdita di progettualità, ma anche speranza e scelte di vita inaspettate: sono tante le ricadute psicologiche per chi sa di essere ad alto rischio di tumori. L’importanza di un supporto psicologico

Negli ultimi anni i test genetici predittivi hanno permesso di intercettare un numero sempre più grande di famiglie con sindromi eredo-familiari di predisposizione al cancro e di impostare così una sorveglianza ottimale, riducendo la mortalità e migliorando la qualità di vita. Tuttavia la conoscenza della propria condizione di rischio porta con sé una lunga serie di ripercussioni anche sul piano emotivo, già a partire dal momento della consulenza oncogenetica e poi durante l’intero percorso, come ricorda la dottoressa Stefania Torelli, psicologa e psicoterapeuta del Servizio di psiconcologia dell’Istituto nazionale dei tumori Regina Elena, IFO Roma, con cui approfondiamo l’argomento.

Stefania Torelli

Il momento della consulenza genetica

«La consulenza genetica è un’esperienza emotivamente molto impegnativa con importanti ripercussioni psicologiche non solo per il diretto interessato ma anche per i suoi familiari – premette Torelli -. Durante la consulenza genetica il paziente riceve tante informazioni, anche molto complesse. Questo bagaglio di dati e nozioni costituisce poi la base per le future scelte che riguardano non soltanto i test a cui si dovrà sottoporre, ma anche l’adesione a percorsi di screening, l’eventuale chirurgia profilattica, lo stile di vita, la comunicazione intra-familiare e la pianificazione riproduttiva o, più genericamente, la progettualità familiare».

Proprio per tutti questi motivi è importante avere un approccio globale, clinico e psicologico, nella presa in carico degli individui portatori di alterazioni genetiche che predispongono allo sviluppo di tumori.

Implicazioni psicologiche connesse ai tumori eredo-familiari

«Quando ascoltiamo le storie dei pazienti con sindromi ereditarie di predisposizione ai tumori, entriamo in risonanza con un “mondo interno” molto complesso – continua l’esperta -. In esso “abitano” fantasmi, paure ancestrali, lutti, aspettative infrante, sogni interrotti. Tuttavia vi possono trovare spazio anche la speranza, la gratitudine nonché scelte di vita inaspettate».

Offrire un quadro più esaustivo delle implicazioni psicologiche connesse ai tumori eredo-familiari è un’operazione difficile perché ogni storia è a sé e ogni famiglia è a sé. In questo contesto entrano infatti in gioco tante variabili, tra cui il tipo di mutazione genetica, la presenza di una storia oncologica, l’età e il sesso.

Le variabili in gioco

«Il tipo di mutazione genetica di cui il soggetto è portatore può esporlo al rischio di tumori diversi e quindi a rischi più o meno significativi per la propria salute e sopravvivenza. La presenza o meno di una storia oncologica, sia personale che familiare, può avere anch’essa ripercussioni psicologiche più o meno significative – fa notare Torelli -. È ormai dimostrato come il “rischio percepito” sia ampiamente influenzato dalla frequenza dei lutti presenti nella storia familiare intergenerazionale. Un’altra variabile importante è l’età, ovvero la fase del ciclo di vita che si sta vivendo: un conto è scoprire di essere portatori di una mutazione genetica quando si è già realizzato il progetto famiglia, altra cosa è scoprirla in età giovanile quando tutto è ancora da costruire».

Anche il genere ha il suo peso: le donne sembrano essere più vulnerabili da un punto di vista psicologico. «La maggiore vulnerabilità femminile è abbastanza intuitiva se pensiamo che le donne vedono più compromessa la funzionalità riproduttiva perché spesso le sindromi ereditarie di predisposizione ai tumori vanno ad intaccare l’organo riproduttivo – precisa Torelli -.

Non bisogna poi dimenticare il ruolo delle caratteristiche individuali: ognuno mette in atto un proprio modo per affrontare le difficoltà nella vita e lo stesso vale per l’esperienza oncologica».

In questo contesto ha un peso importante anche il supporto esterno, in particolare sia le risorse reali sia quelle percepite, ovvero quanto una persona si sente sicura dentro di sé di poter contare sul contesto esterno, sugli amici, sulla rete di affetti.

Temi emotivi ricorrenti

«Se è vero che ogni storia è a sé, è anche vero che possiamo trovare dei temi emotivi ricorrenti nelle narrazioni che fanno i pazienti – spiega la psicologa -. Scoprire di avere una mutazione che predispone al rischio di tumori eredo-familiari per la maggior parte degli individui rappresenta una frattura biografica e una ferita narcisistica identitaria». La frattura biografica si verifica quando arriva la diagnosi: è come se questa sancisse in maniera netta un prima da un dopo, un prima fatto di possibilità, progettualità e un dopo in cui sembra possibile vivere solo un eterno presente, perché tutto è avvolto nell’incertezza. La ferita identitaria deriva dal fatto che la condizione di cui viene a conoscenza il soggetto al momento della diagnosi è attribuibile al DNA, alla biologia costituzionale dell’individuo. Ad essa il paziente dà una valenza identitaria, come un marchio che ha caratteristiche di inalterabilità e di incurabilità. «Questo determina la comparsa di sentimenti importanti come la vergogna, la colpa, la rabbia, la tristezza: cambia la percezione che il paziente ha di sé stesso con conseguenze importanti anche nelle relazioni, nelle dinamiche affettiva e familiari. Il processo di elaborazione che poi che ne consegue è molto simile a quello del lutto: la persona si deve separare dalla precedente rappresentazione che aveva di sé per andare verso una nuova integrità psicofisica nella quale occorre includere anche la dimensione vulnerabile o malata» chiarisce Torelli.

Le ricadute sulle relazioni

Sono diverse le implicazioni psicologiche che hanno a che vedere con il mondo delle relazioni. Il solo termine “tumore ereditario” fa pensare subito alle relazioni tra una generazione e l’altra, con condizionamenti anche a livello psicologico. «Sulla base della nostra esperienza clinica, possiamo dire che quasi tutti i pazienti sperimentano il vissuto inconscio della colpa. Dalle loro narrazioni emerge la fantasia inconscia di non essere stati, o non poter essere, genitori sufficientemente buoni in grado di trasmettere l’adeguata sicurezza/protezione alla prole oppure hanno la fantasia di poter essere genitori “cattivi” da cui poter ereditare solo il bagaglio della minaccia, della paura o della sofferenza – riferisce la psicologa -. Per contro c’è anche la fantasia inconscia di essere “vittima” di questa ereditarietà. Se la famiglia era disfunzionale prima, la diagnosi di sindrome ereditaria diventa un ulteriore elemento critico che può riaccendere antichi conflitti. Si tratta di fantasie inconsce che poi nel colloquio con il paziente noi psicologi cerchiamo di “bonificare”: non si può parlare di colpa e nemmeno di responsabilità, si tratta solo una questione di sfortuna».

I vissuti familiari

Scoprire di avere una mutazione che predispone al rischio di tumori irrompe nel sistema familiare come un attacco alla felicità e alla stabilità interna della famiglia. «Raggiungere e mantenere un nuovo equilibrio non è per niente un percorso semplice – fa notare Torelli -. Anche perché queste famiglie sono continuamente sollecitate dai controlli ricorrenti: ogni volta che qualche familiare si sottopone a un esame o una visita, si riaccende l’ansia, l’angoscia. Sia pazienti sia i familiari possono sperimentare intensi vissuti di rabbia, di colpa. Spesso entrambi mettono in atto dei meccanismi difensivi per proteggersi dalle emozioni sgradevoli, ma se in un primo momento questi meccanismi possono essere funzionali all’adattamento, in un secondo momento rischiano di diventare un problema. Talvolta possono infatti arrivare a mettere a repentaglio la sorveglianza stessa. È quindi fondamentale intercettarli e poi cercare di smantellarli con le giuste strategie di intervento psicologico».

Il problema della progettualità familiare

Quello della progettualità familiare è un altro tema caldo come ricorda la psicologa. «Il desiderio della progettualità familiare sembra sollevare preoccupazione e sensi di colpa sia per la probabilità di trasmettere ai figli la stessa mutazione ma anche perché proprio la genitorialità potrebbe essere compromessa dall’insorgenza della malattia o dalla morte prematura. C’è quindi un condizionamento importante. Sono proprio queste preoccupazioni che spesso spingono la persona verso la consulenza e i test genetici».

Inoltre tra i genitori ci possono essere conflitti decisionali su quando e come condividere l’informazione con i figli. «Molto spesso le coppie si basano sulle informazioni genetiche anche per prendere le decisioni riproduttive. Sono in espansione gli studi che indagano gli atteggiamenti che hanno le persone nei confronti della tecnologia riproduttiva e della genetica preimpianto. Sono scenari che all’estero sono già realtà, ma che in Italia devono ancora decollare. Proprio perché il tema è poco conosciuto, è ancora più importante informare bene i pazienti. L’informazione è la prima medicina per i soggetti sani a rischio di tumore o già malati: se si è ben informati ci si può curare in maniera ottimale e fare scelte più consapevoli».

L’importanza della psiconcologia

Quella dell’IFO, in particolare dell’Istituto dei tumori Regina Elena, è una realtà virtuosa grazie alla presenza di un modello integrato di consulenza oncogenetica che prevede, accanto al medico esperto di tumori eredo-familiari e al genetista, la figura dello psicologo, che accompagna il paziente in tutte le fasi. Lo psicologo infatti è presente durante la prima consulenza, nella fase di restituzione dei risultati dei test, ma anche lungo tutto il percorso (diagnosi, sorveglianza, terapia). «Non solo, sono sempre attivi percorsi di psicoterapia che possono essere individuali, di coppia o familiari – puntualizza Torelli -. A seconda delle varie fasi, lo psicologo assume un ruolo diverso: durante la prima consulenza, la sua sola presenza promuove la visione integrata della persona, il paziente si sente accolto nella sua interezza. Nel momento della restituzione dei test, lo psicologo contiene le emozioni che possono scaturire, individua le strategie di comunicazione migliori con il paziente e identifica i soggetti con una vulnerabilità psicologica che potrebbero avere bisogno di un intervento di secondo livello (la psicoterapia). Un altro ruolo importante dello psicologo è anche quello di aiutare i pazienti e i medici a comunicare, facendo da filtro rispetto ai loro bisogni e alle loro aspettative».

Se quello dell’IFO è modello organizzativo molto ben strutturato, purtroppo non è così ovunque. C’è infatti ancora molta strada da fare per promuovere la figura dello psiconcologo. Sono ancora pochi i centri che sono in grado di prendere in carico a 360°, con supporto psicologico compreso, le famiglie con sindromi eredo-familiari.

Antonella Sparvoli

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