Tumore ovarico: cambio di rotta nel percorso diagnostico e di cura

Presentato al ministero della Salute il primo libro bianco illustrato di voci, bisogni e proposte delle pazienti, emerse da un’indagine condotta da ACTO Italia

“Cambiamo rotta”: questo il titolo del primo libro bianco illustrato sul carcinoma ovarico, promosso da ACTO Italia, con il supporto di GSK e Roche, e presentato di recente al Ministero della salute insieme al Manifesto 2.0 dei bisogni e dei diritti delle pazienti con tumore ovarico in cui sono illustrate le sette azioni prioritarie per migliorare la presa in carico.

Il libro, che fa seguito a una ricerca condotta da ACTO Italia, tra maggio e giugno 2023 su 109 pazienti distribuite su tutto il territorio nazionale, scatta una fotografia del livello di conoscenza del tumore ovarico nelle pazienti e del loro percorso di cura, facendo emergere cosa è necessario innovare per provare a cambiare, in meglio, il futuro della malattia e il destino delle donne che colpite da questa neoplasia.

L’indagine sulla conoscenza del tumore ovarico

Il progetto “Cambiamo rotta. Donne con tumore ovarico. Verso nuovi percorsi” è stato realizzato con il contributo di 9 pazienti che, con le proprie storie, hanno illustrato il percorso di malattia delle donne con tumore ovarico, dalla diagnosi alla cura e oltre. Sono stati inoltre coinvolti altri 20 professionisti, tra clinici ed esperti che, commentando le storie delle pazienti, hanno messo in luce quanto c’è ancora da fare per la cura di questo tumore.

Dall’indagine sulle pazienti, i cui risultati sono contenuti nel libro bianco illustrato, è emerso che oggi il 70% delle donne con tumore ovarico conosce già la malattia prima della diagnosi, rispetto al 30% dei dieci anni fa. Ma c’è un aspetto su cui le donne non hanno ancora consapevolezza, ovvero l’importanza della struttura in cui ci si cura, che può fare la differenza. Meno di tre pazienti su dieci scelgono infatti di curarsi in un centro specializzato per questa neoplasia. Inoltre, l’indagine conferma le difficoltà nel diagnosticare la malattia in stadio precoce: il 70% delle pazienti scopre il tumore quando è già in fase avanzata, complici i sintomi aspecifici e la mancanza di strumenti di screening efficaci.

Le azioni da intraprendere

Per migliorare la presa in carico delle pazienti occorre intervenire su diversi aspetti, come si legge nel Manifesto 2.0 e sottolinea la presidente di ACTO Italia Nicoletta Cerana. «Bisogna restare sulle strade buone che ci hanno portato fin qui, ma contemporaneamente aprire nuovi percorsi per continuare ad innovare. Quali? Aumentare l’informazione sulla malattia e sui centri specializzati per promuovere scelte di cura più consapevoli; sostenere la ricerca per la diagnosi precoce che ancora oggi resta una chimera; aprire ai test genomici per rendere possibili le cure personalizzate; cominciare a parlare di sessualità e oncologia, un ambito di bisogni del tutto dimenticato che sta emergendo sempre più forte da parte delle pazienti. Si vive di più anche con il tumore ovarico, di conseguenza è diventato necessario prendersi cura della persona, oltre che curare la malattia».

L’importanza dei test genomici

Dalla ricerca di ACTO Italia è emerso anche che meno della metà delle pazienti (45%) accede alla profilazione genomica e che a più di una paziente su dieci non viene ancora proposto il test genetico per le mutazioni BRCA, oggi previsto nei Livelli essenziali di assistenza, diversamente dal test HRD di profilazione genomica. «Negli ultimi 5 anni è accaduto quello che io definisco uno tsunami nel trattamento del carcinoma ovarico: per la prima volta siamo riusciti ad aumentare la percentuale di pazienti potenzialmente guarite – riferisce la professoressa Nicoletta Colombo dell’Università Milano-Bicocca e direttore del Programma Ginecologia dell’Istituto Europeo Oncologia –. Abbiamo scoperto, infatti, il primo “bersaglio” del tumore ovarico che può essere colpito con farmaci mirati: si chiama Deficit della Ricombinazione Omologa (HRD). Tale deficit è presente nei tumori di tutte le pazienti con mutazioni BRCA e di un altro 25% di pazienti senza mutazioni di questi geni: quindi nella metà dei casi totali. Bisogna perciò garantire due tipi di test: quelli genetici, soprattutto a scopo di prevenzione delle persone sane, e quelli genomici sul tessuto tumorale, come il test HRD, per personalizzare le cure nelle donne malate».

Dai test alle cure personalizzate

I test genetici e genomici rappresentano quindi un requisito essenziale per garantire a ogni paziente una strategia terapeutica personalizzata. «I risultati di questa personalizzazione riguardano soprattutto la terapia medica e di mantenimento, e si traducono in una opportunità concreta di attingere a nuove classi di farmaci mirati e a bersaglio molecolare (PARP inibitori, immunoterapie, anticorpi farmaco coniugati) che richiedono una gestione e una presa in carico di un team multidisciplinare – spiega Domenica Lorusso, professore associato di ostetricia e ginecologia presso Università Cattolica del Sacro Cuore e responsabile dell’UOC programmazione ricerca clinica presso Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS -. Da qui l’esigenza di identificare i centri oncologici specializzati dove queste pazienti possono essere curate».

I centri specializzati

Essere curate in centri specializzati può fare la differenza per le donne con tumore ovarico, sebbene solo un terzo delle pazienti ne sia consapevole. Solo nei centri di riferimento per i tumori ginecologici è garantita la gestione multidisciplinare, l’accesso alla diagnosi e alle terapie innovative e agli studi clinici nonché l’elevato livello di competenza chirurgica necessario come ricorda Giovanni Scambia, direttore dell’UOC Ginecologia oncologica della Fondazione Policlinico Universitario Agostino Gemelli IRCCS di Roma. «Il trattamento chirurgico rappresenta la terapia d’elezione in tutte le fasi della malattia: nello stadio iniziale, dove l’intervento e la chemioterapia permettono di raggiungere tassi di guarigione anche dell’80-85%; negli stadi avanzati, dove l’intervento da solo riesce a eradicare la malattia in circa il 60% delle pazienti. Solo i centri specializzati possono infatti garantire anche l’expertise dell’équipe chirurgica».  

PDTA in ogni regione

Per una presa in carico ottimale ogni regione si dovrebbe dotare di un PDTA (Percorso diagnostico-terapeutico assistenziale) mirato per il tumore dell’ovaio, peccato però che ad oggi solo nove regioni lo abbiano fatto.  «Essere curate per il tumore ovarico al meglio delle nostre attuali conoscenze e con le tecnologie più all’avanguardia non può essere una questione di fortuna. E non può e non deve dipendere da dove si vive – osserva Sandro Pignata, direttore dell’UOC Oncologia Uro-Ginecologica dell’Istituto dei tumori Pascale di Napoli, coordinatore scientifico della Rete Oncologica Campana e presidente del Multicenter Italian Trials in Ovarian cancer and gynecologic malignancies (MITO) -. Ci sono le Linee Guida e c’è uno strumento attuativo indispensabile che serve ad applicarle: il PDTA. E poiché il nostro Sistema Sanitario è regionale, ogni regione si dovrebbe dotare del PDTA del tumore dell’ovaio».    

© 2022 Fondazione Mutagens ETS. Tutti i diritti riservati.

Leggi altre notizie