Tumore dell’ovaio: promettente il Pap test per la diagnosi precoce

Nei campioni prelevati dal collo dell’utero è possibile identificare tracce della neoplasia ovarica diversi anni prima che si manifesti. Lo rivela uno studio italiano che apre la strada allo screening della malattia

Ogni anno circa una donna su 80 riceve una diagnosi di tumore ovarico per un totale di più di 5300 nuove diagnosi annuali. Quello dell’ovaio è stato per anni ed è tuttora il più letale tra i tumori ginecologici nonostante i significativi miglioramenti dovuti allo sviluppo di farmaci innovativi come i PARP inibitori, complice la diagnosi tardiva per la mancanza di metodi di screening. Solo circa un tumore su dieci viene infatti identificato in fase precoce quando le possibilità di guarigione sono decisamente maggiori. Ora la situazione però potrebbe migliorare notevolmente, recenti studi aprono infatti la strada alla diagnosi precoce, individuando tracce della malattia grazie al Pap test. Particolarmente incoraggianti sono i risultati di uno studio italiano pubblicato di recente sulla rivista Science Translational Medicine. Ne parliamo con Maurizio D’Incalci, responsabile del Laboratorio di farmacologia antitumorale dell’IRRCS Istituto clinico Humanitas e professore di farmacologia presso Humanitas University, che ha coordinato il lavoro.

Maurizio D’Incalci

Le tracce del tumore ovarico nel Pap test

«La maggior parte dei carcinomi dell’ovaio sierosi ad alto grado (la forma più comune di tumore ovarico) hanno origine dalle tube e poi si diffondono alle strutture limitrofe – premette D’Incalci -. Partendo da questa osservazione, abbiamo pensato che così come le cellule tumorali si muovono dalle tube verso l’ovaio e il peritoneo, potessero muoversi anche verso l’utero e che quindi fosse possibile individuare delle tracce nei campioni raccolti con il Pap test. Nei primi studi che abbiamo condotto, abbiamo focalizzato l’attenzione sulla ricerca di mutazioni nel gene oncosoppressore TP53, perché queste sono quasi sempre presenti nei tumori sierosi ad alto grado».

Da questa prima analisi retrospettiva, in cui sono stati analizzati i tamponi dei Pap test di 113 donne che hanno successivamente sviluppato tumori ovarici e di 77 donne sane, è emerso che le stesse mutazioni di TP53 rilevate nei tumori erano in effetti presenti nei campioni dei Pap test raccolti fino a 6 anni prima.

Dalle mutazioni di TP53 all’instabilità genomica

Questi dati, pubblicati in parte nel 2020 sulla rivista Jama Network Open, già dimostravano che è possibile fare diagnosi del tumore ovarico diversi anni prima attraverso il Pap test, tuttavia c’erano alcuni problemi da risolvere, come segnala D’Incalci. «Innanzitutto è necessario sapere prima che mutazione cercare nei campioni. Se si considera che sono più di 150 le mutazioni di TP53, questo tipo di approccio risulta un po’ troppo complicato. Inoltre nuove evidenze hanno mostrato che le mutazioni di TP53 non sono sufficientemente specifiche per diagnosticare il tumore ovarico perché alterazioni di questo gene sono state rinvenute anche in cellule normali, in particolare in relazione all’invecchiamento. A questo punto abbiamo deciso di rivolgere l’attenzione ad altri marcatori. Studiando il tumore ovarico ai primissimi stadi abbiamo notato la presenza di una fortissima instabilità genomica. Abbiamo visto che andando a cercare questo tipo di caratteristica si ha sufficiente sensibilità per individuarla nel Pap test fino a 9 anni prima».

La validazione

L’instabilità del genoma è stata rilevata attraverso il sequenziamento a bassa intensità dell’intero genoma del DNA derivato da campioni di Pap test ed era sostanzialmente maggiore nei campioni delle donne che poi hanno sviluppato il tumore ovarico rispetto a quanto rilevato in quelle che non si sono ammalate. «Il test per l’instabilità genomica ha una specificità molto elevata del 96% e una sensibilità del 75%. Quelli che abbiamo raccolto finora sono dati molto incoraggianti, ma bisogna essere cauti, anche perché la casistica è limitata (113 donne che hanno successivamente sviluppato tumori ovarici e 77 donne sane) – osserva D’Incalci -. Serve senz’altro una validazione più ampia in modo tale da avere più dati e su campioni anche un po’ diversi. Se in passato il Pap test veniva eseguito strisciando il materiale raccolto dalla cervice su un vetrino, oggi, sempre di più, l’esame si fa in fase liquida».

I progetti futuri

Accanto alla raccolta di maggiori dati retrospettivi, sono in cantiere anche altri progetti di ricerca come puntualizza D’Incalci. «Vorremmo avviare una collaborazione con ospedali che fanno interventi di salpingectomia e/o ovariectomia profilattica (ovvero asportazione di tube e/o ovaie) per ridurre il rischio di tumore ovarico nelle donne ad alto rischio per la presenza di mutazioni germinali patogenetiche nei geni BRCA1 e 2. L’idea è quella di fare il Pap test prima dell’intervento per verificare, qualora il tumore fosse presente nelle fasi iniziali, la concordanza con il nostro test. Questo tipo di studio, già in un paio di anni, potrebbe fornire informazioni preziose con ricadute pratiche. Se venisse rilevata una concordanza, il test dell’instabilità genomica potrebbe infatti permettere alle donne BRCA mutate sane a rischio di monitorare la propria situazione, offrendo eventualmente la possibilità di ritardare la chirurgia profilattica. Infine stiamo pensando a uno studio prospettico di grandi dimensioni, probabilmente internazionale, per passare da una prova di principio a dati con una solidità tale da consentire l’applicazione dello screening per il tumore ovarico con il Pap test nella routine clinica».

Antonella Sparvoli

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