Tumore ovarico avanzato: niraparib prolunga la sopravvivenza

Il PARP inibitore, indicato come mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, anche senza specifiche mutazioni, consente di non far progredire il cancro per un periodo prolungato. La dose personalizzata migliora la sicurezza

Notizie positive per le donne con tumore ovarico metastatico. La terapia di mantenimento in prima linea con il PARP inibitore niraparib aumenta di oltre due anni la sopravvivenza libera da malattia con una riduzione del 55% del rischio che il tumore si ripresenti. Non solo, grazie al dosaggio personalizzato, diminuiscono anche gli eventi avversi. Lo ribadisce lo studio indipendente di fase III PRIME, condotto in Cina, nel quale sono state analizzate le evidenze su niraparib, PARP inibitore di GSK, per ora approvato in Italia per “il trattamento di mantenimento in prima linea e in monoterapia per pazienti con carcinoma ovarico epiteliale di alto grado avanzato, alle tube di Falloppio o peritoneale primario, in risposta completa o parziale dopo chemioterapia a base di sali di platino”. Lo studio, come il precedente trial registrativo denominato PRIMA, del 2019, ribadisce che niraparib è il primo PARP inibitore ad essere indicato come trattamento di mantenimento in prima linea per tutte le pazienti, indipendentemente dalla presenza di specifiche mutazioni. Commentiamo i nuovi dati, presentati in occasione del Congresso della Società americana di oncologia clinica (ASCO) con Claudia Marchetti dell’UOC di ginecologia oncologica dell’IRCCS Policlinico Gemelli di Roma e membro del Team Ginecologia della Fondazione Mutagens.

Claudia Marchetti

Pazienti più vicine alla pratica clinica

«La principale particolarità dello studio PRIME, rispetto al trial registrativo PRIMA, è quella di aver incluso pazienti con tumore ovarico di stadio III che non avevano malattia residua dopo l’intervento chirurgico primario – fa notare Claudia Marchetti -. Si tratta dunque di pazienti che rispecchiano maggiormente quello che vediamo nella pratica clinica ordinaria».

Nel tumore dell’ovaio la prerogativa fondamentale è operare le pazienti in maniera completa, cercando di eliminare tutta la malattia macroscopicamente evidente, possibilmente al primo intervento chirurgico. Se ciò non è possibile la paziente viene trattata con una chemioterapia neoadiuvante per ridurre la massa tumorale e, dopo alcuni cicli, si fa un nuovo tentativo chirurgico per togliere completamente la malattia. Nella maggior parte dei centri considerati di livello, la percentuale di pazienti che si avvia alla chemioterapia neoadiuvante deve essere inferiore al 50%.

«Nello studio PRIMA del 2019 le pazienti arruolate erano state sottoposte a chemioterapia neoadiuvante (erano quindi inoperabili al primo tentativo) oppure, nei casi in cui erano state operate in prima istanza, c’era comunque malattia residua post-operatoria – spiega Marchetti -. Proprio per questo motivo si trattava di pazienti con una prognosi molto sfavorevole. Diversamente lo studio PRIME ha coinvolto un tipo di paziente che noi incontriamo più spesso nella pratica clinica: circa metà era stata sottoposta alla chemioterapia neoadiuvante e l’altra metà era stata operata al primo tentativo, raggiungendo l’obiettivo di non avere malattia residua».

Il test per definire lo stato di ricombinazione omologa

Il 20-25% delle pazienti con tumore sieroso dell’ovaio di alto grado presenta una mutazione nei geni BRCA1/2, cosa che implica l’incapacità di riparare il DNA. Questi tumori presentano quello che viene definita come Homologous Recombination Deficiency o HRD (deficit della ricombinazione omologa), ma anche mutazioni funzionali in altri geni coinvolti nella ricombinazione omologa che possono portare a un HRD. Lo status del sistema di riparazione del DNA mediante HR, deficitario (deficient) o, al contrario, funzionante (proficient), ha un riflesso terapeutico, in quanto influisce sulla sensibilità delle cellule tumorali ai PARP inibitori.

«Nel trial registrativo PRIMA la definizione di HRD era stata fatta sulla base del test Myriad, oggi il più utilizzato, che esprime un punteggio di HRD – spiega Marchetti-. Se il punteggio è superiore a 42, il tumore è considerato HRD e quindi più responsivo ai PARP inibitori. Se il punteggio è inferiore a 42, il tumore è considerato HR proficient e quindi il PARP inibitore dovrebbe funzionare meno bene».

Niraparib efficace anche nei tumori senza mutazioni

«Già nello studio PRIMA si era visto che il niraparib funzionava sempre, a prescindere dallo stato di ricombinazione omologa, anche se con un gradiente di efficacia: benissimo nelle pazienti BRCA mutate, molto bene nei tumori HRD per la presenza di mutazioni in geni diversi da BRCA e “benino” nelle pazienti con tumori HR proficient, ovvero che riparano il DNA. La stessa cosa si è vista nello studio PRIME, però per ora non sono disponibili informazioni sul test usato per valutare lo stato di ricombinazione omologa. Per poter confrontare meglio i dati e giungere a considerazioni più chiare sarebbe stato utile utilizzare lo stesso test per valutare la HRD» osserva l’esperta.

Il dosaggio personalizzato

Nel nuovo studio gli autori hanno somministrato una dose individualizzata di farmaco, in base al peso corporeo e alla conta piastrinica, con lo scopo per migliorare il profilo di sicurezza. Grazie al dosaggio individualizzato solo il 6,7% delle pazienti trattate con niraparib (il 5,4% nel gruppo placebo) ha sospeso in modo definitivo la cura a causa di eventi avversi e questo rappresenta il numero più basso di tutti i trial di fase III con tutti i PARP inibitori negli studi condotti finora in pazienti con carcinoma ovarico.
«Niraparib dà classicamente una tossicità ematologica con riduzione delle piastrine – puntualizza Marchetti -. Con la dose personalizzata il riscontro di trombocitopenia (carenza di piastrine nel sangue) severa è più basso, pressoché dimezzato rispetto a quanto osservato nello studio PRIMA (29% nello studio PRIMA, 14% nello studio PRIME). La dose individualizzata sin dall’inizio permette di diminuire il numero di pazienti che devono ridurre la dose, di diminuire il tasso di discontinuazione, nonché di protrarre il trattamento più a lungo. Questi dati sono rafforzativi di quello che già si evidenziava nella pratica clinica e migliorano la maneggevolezza del farmaco».

Le prospettive

«Attualmente in Italia è possibile usare niraparib solo nelle pazienti con tumore residuo dopo la chirurgia o che hanno fatto la chemioterapia neoadiuvante. Ora l’auspicio è che grazie a questo studio, che dimostra l’efficacia del PARP inibitore anche in assenza di malattia residua postoperatoria, ci possa essere un’estensione al suo utilizzo» conclude Marchetti.

Antonella Sparvoli

© 2022 Fondazione Mutagens ETS. Tutti i diritti riservati.

Leggi altre notizie