Tumore della prostata: il “peso” della genetica

Sempre più studi evidenziano come la presenza di varianti patogenetiche nei geni BRCA sia associata a un aumento del rischio di sviluppare il carcinoma prostatico. L’implementazione dei test genetici potrebbe avere implicazioni importanti, come chiarisce Massimo Lazzeri, urologo dell’Istituto Clinico Humanitas e coordinatore del Team urologia di Mutagens

Oltre ad aumentare il rischio di tumore al seno e alle ovaie nelle donne, le mutazioni nei geni BRCA 1 e BRCA 2 possono essere pericolose anche per gli uomini. La presenza di varianti patogenetiche nei “geni Jolie”, così ribattezzati dal nome dell’attrice americana Angelina Jolie che alcuni anni fa ha reso noto di averli e di essersi sottoposta a interventi preventivi su seno e ovaie, espone infatti gli uomini a un rischio maggiore di sviluppare alcuni tumori, tra cui quello della prostata. Quest’ultimo rappresenta il 26% di tutte le diagnosi di tumore nell’uomo e, nei Paesi occidentali, è il tumore più frequente nella popolazione maschile. Fino a non molto tempo fa, complice la diffusione del test del PSA, si è osservato un aumento nel numero di nuovi casi di tumore alla prostata scoperti ogni anno. Tuttavia questo esame si è rivelato di limitata utilità per lo screening di massa in quanto la sua esecuzione non produce un vantaggio in termini di mortalità o può produrlo solo in una limitata fetta di uomini sopra i 55 anni. La scoperta di una base ereditaria in un sottogruppo di pazienti affetti da carcinoma della prostata, potrebbe però aprire la strada allo screening genetico, fronte su cui è fortemente impegnata Mutagens, in particolare attraverso l’avvio di un tavolo di lavoro sui “Percorsi Alto Rischio Eredo-Familiare”, nato dalla collaborazione con Alleanza Contro il Cancro (ACC) e quattro prestigiosi IRCCS: l’Istituto Europeo di Oncologia di Milano, l’Ospedale San Raffaele di Milano, l’Istituto Clinico Humanitas di Milano e la Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma. Approfondiamo in questa intervista l’argomento con l’aiuto di Massimo Lazzeri, urologo dell’Istituto Clinico Humanitas e coordinatore del Team Urologia nel tavolo di lavoro sui “Percorsi Alto Rischio Eredo-Familiare”.

Quanto conta l’ereditarietà nel tumore della prostata?

Sebbene in passato sia stato possibile identificare i fattori ambientali che possono indurre la crescita di un tumore, si pensi al fumo di sigaretta per il polmone oppure a una dieta ricca di grassi animali per il tumore del colon-retto, ad oggi non si conoscono “cancerogeni” strettamente legati con il tumore prostatico. Si è comunque osservato che i maschi adulti sani, i quali hanno un familiare di primo grado affetto (padre, fratello, zio paterno), presentano un rischio maggiore di sviluppare una neoplasia prostatica rispetto alla popolazione di controllo. Questa osservazione ha quindi portato a sviluppare il concetto di fattore di rischio familiare. E’ tuttavia necessario distinguere il concetto di familiarità da quello di ereditarietà. Familiarità combina una predisposizione genetica, multifattoriale, con fattori ambientali: un nucleo familiare che condivide un ambiente in cui sia presente un agente cancerogeno specifico, indipendentemente dallo stato del suo patrimonio genetico, ha un rischio maggiore di sviluppare una neoplasia determinata da quell’agente cancerogeno. Ereditarietà indica le modalità con cui i figli ricevono dai genitori il materiale genetico. Circa il 5-10% dei tumori prostatici è il risultato di una specifica “suscettibilità genetica”. Le mutazioni dei geni di riparazione del DNA (tra i cui i ben noti geni BRCA), che codificano delle proteine capaci di riparare il DNA danneggiato, giocano un ruolo importante. Queste mutazioni possono essere acquisite dal tumore durante il suo sviluppo e si chiamano “somatiche”, oppure possono essere già presenti in un individuo che le ha ereditate dai genitori. In quest’ultimo caso prendono il nome di “germinali”. Essere portatori di una mutazione germinale dei geni di riparazione del DNA espone quindi l’individuo a un rischio maggiore di sviluppare un tumore. Nello specifico i soggetti di sesso maschile, portatori della mutazione, hanno un rischio di sviluppare un tumore prostatico 8 volte superiore rispetto a chi non è portatore. Questi pazienti possono sviluppare neoplasie prostatiche in età giovanile, prima dei 55 anni, e tumori più aggressivi.

Come è possibile far emergere i pazienti a rischio per la presenza di mutazioni germinali?

Possiamo e dobbiamo adottare due strategie. La prima ha origine sul versante femminile, ovvero nasce dalla identificazione di donne con tumore mammario od ovarico portatrici di una mutazione dei geni di riparazione del DNA (BRCA 1 e 2); esse rappresentano circa l’8-10% di tutte le donne con queste neoplasie. Ai figli e fratelli di queste donne dovrebbe essere offerto un test genetico per valutare se condividono la stessa mutazione ereditaria. In Humanitas, ad esempio, abbiamo in corso uno studio seguito dalla dottoressa Monica Zuradelli, ora confluito in un progetto sostenuto da un grant di AIRC, basato su uno screening innovativo dedicato proprio ai soggetti maschi sani che potrebbero aver ereditato una mutazione che li espone maggiormente a rischio di queste forme di tumore prostatico. La seconda strategia capace di identificare i soggetti a rischio di essere portatori della mutazione, guarda ai pazienti già affetti da tumore prostatico. Fra questi pazienti dovremo identificare coloro, già malati, che sono portatori del gene mutato e successivamente offrire un test genetico, come nel caso precedente, ai figli, fratelli e cugini sani. L’obiettivo è quindi una presa in carico di questi soggetti maschi sani mutati e dei loro familiari, come avviene nel Dipartimento di Urologia dell’ospedale, grazie al team di urologi coordinati dal dottor Paolo Casale, responsabile dell’Unità Operativa, con il professor Giorgio Guazzoni in qualità di Advisor Clinico e Scientifico.

Quali implicazioni potrebbe avere dal punto di vista sanitario e sociale l’implementazione dei test genetici?

La presa in carico di questi soggetti sani mutati significa l’attivazione di un counseling genetico e uno screening dedicato per una diagnosi precoce. La diagnosi precoce, si spera, potrà cambiare la storia naturale della malattia riducendone la mortalità, e permetterà di offrire trattamenti mininvasivi nel rispetto di quell’equilibrio fra quantità e qualità di vita. Già oggi iniziamo a disporre di farmaci che hanno come bersaglio i geni di riparazione del DNA, i cosiddetti PARP inibitori. Questo ci sta portando e sempre più ci porterà nella direzione di una terapia personalizzata. Negli studi clinici in corso questi nuovi farmaci stanno dando grandi risultati nella terza linea di trattamento (ovvero negli uomini con tumore alla prostata diffuso, con metastasi, che non risponde più ai trattamenti ormonali standard), ma potrebbero diventare il trattamento di scelta anche in prima linea, come suggeriscono nuovi dati su altri tumori (ovaio) associati a mutazioni nei geni BRCA.

L’iniziativa in corso tra Mutagens, Alleanza Contro il Cancro e la rete nazionale degli IRCCS – che mira a sviluppare una nuova coscienza e conoscenza nelle sindromi eredo-familiari – riporta l’attenzione sul singolo paziente inteso come “capitale umano” e offre un contributo per un nuovo welfare individuale orientato sia alla cura sia alla prevenzione dei tumori.

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