Tumore alla prostata metastatico: quale ruolo per i PARP inibitori?

Recenti studi hanno aperto la strada a nuove strategie terapeutiche che vedono come protagonisti questi farmaci. I maggiori benefici sono stati osservati nei pazienti con mutazioni BRCA

La medicina di precisione sta assumendo un ruolo sempre più rilevante nel trattamento del tumore della prostata. L’introduzione dei PARP inibitori, molecole che interferiscono con i meccanismi che la cellula mette in atto per riparare i danni al DNA, sta rivoluzionando il trattamento di questa neoplasia, in particolare nei pazienti che presentano mutazioni genetiche, germinali o somatiche, nei geni di suscettibilità BRCA1 e BRCA2. Sono diversi gli studi in corso e le novità sull’uso di questi farmaci nel trattamento del tumore alla prostata metastatico. L’ultima, in ordine temporale, viene dai dati dello studio TALAPRO-2, presentati al recente congresso ASCO Genitourinary Cancer Symposium. Dalla ricerca è emerso che nel tumore alla prostata metastatico resistente alla castrazione combinare l’utilizzo in prima linea di un inibitore dei recettori degli androgeni (enzalutamide) con un PARP inibitore (talazoparib) porta ad un miglioramento significativo della sopravvivenza libera da progressione radiologica, sia nei soggetti con mutazioni BRCA sia in quelli non mutati, nei quali però l’efficacia è minore. Sebbene ci sia grande fermento, restano comunque molti aspetti da chiarire e definire meglio come sottolinea Orazio Caffo, direttore dell’Unità operativa di oncologia medica dell’Azienda provinciale per i Servizi sanitari di Trento e membro del direttivo della Società italiana di uro-oncologia (SIUrO), con cui abbiamo fatto un excursus sul ruolo dei PARP inibitori nel tumore prostatico.

Orazio Caffo

Il punto della situazione

Lo scorso anno l’Agenzia italiana del farmaco (AIFA) ha approvato l’utilizzo di olaparib, capostipite dei PARP inibitori, nel tumore alla prostata metastatico resistente alla castrazione con mutazione dei geni BRCA1 o 2 in progressione dopo una precedente terapia ormonale di nuova generazione (quindi in linee successive alla prima). Mentre, più di recente, l’Agenzia europea per i medicinali (EMA) ha approvato nell’Unione europea la rimborsabilità per olaparib in combinazione con una terapia ormonale (abiraterone e prednisone o prednisolone), per il trattamento del tumore alla prostata metastatico e resistente alla castrazione, negli uomini adulti nei quali non sia indicata la chemioterapia, a prescindere dalla presenza o meno di mutazioni nei geni BRCA.

«In questo momento siamo in una fase “fluida” – premette Caffo -. Dallo scorso anno abbiamo la possibilità di utilizzare i PARP inibitori, in particolare olaparib, in pazienti che abbiano ricevuto un trattamento con un farmaco ormonale di nuova generazione in progressione e che presentino mutazioni somatiche o germinali di BRCA. Ma studi recenti aprono nuovi orizzonti così come nuovi interrogativi».

Gli studi sui PARP inibitori nel tumore alla prostata

Di recente sono stati presentati i risultati di tre studi di combinazione con un farmaco ormonale di nuova generazione (abiraterone o enzalutamide) e un PARP inibitore (olaparib, niraparib o talazoparib). La recente approvazione di EMA di olaparib in combinazione con abiraterone si basa proprio su uno di questi studi, ovvero lo studio PROpel, che ha coinvolto quasi 800 pazienti, metà trattati con il PARP inibitore in associazione ad abiraterone e prednisone o prednisolone e metà in terapia con abiraterone e prednisone o prednisolone.

Queste ricerche hanno testato una strategia diversa rispetto a quella attuale. «In questi studi il PARP inibitore è stato utilizzato in prima linea per la malattia resistente alla castrazione in combinazione con un farmaco ormonale di nuova generazione in tutti pazienti, indipendentemente dalla presenza o meno di mutazioni – riferisce Caffo -. A parte lo studio in cui abiraterone è stato utilizzato in combinazione con il PARP inibitore niraparib, in cui non si sono visti benefici, gli altri studi (PROpel, che ha usato abiraterone in combinazione con olaparib, e TALAPRO-2, che ha usato enzalutamide e talazoparib) hanno evidenziato un vantaggio molto significativo in termini di sopravvivenza libera da progressione radiologica in tutti i pazienti, indipendentemente dalla presenza di mutazioni nei geni BRCA. Tuttavia, stratificando la popolazione in base alla presenza di mutazioni o meno, si è visto che il vantaggio era maggiore nei mutati». La sopravvivenza libera da progressione, ovvero il periodo di tempo in cui la malattia pur essendo presente non progredisce, è un parametro molto importante. Il suo aumento è infatti un indice di efficacia delle cure ed in genere è correlato anche a un prolungamento della sopravvivenza del paziente e a una migliore qualità di vita.

I nodi da sciogliere

«Il problema che si sta ponendo in relazione a questa strategia che prevede l’uso della combinazione PARP inibitore e abiraterone in prima linea, è che i risultati finora raccolti sul fronte della sopravvivenza globale non sono così convincenti. I risultati dello studio PROpel danno infatti una significatività molto marginale e solo un follow up più lungo potrà fornirci dati più maturi e chiari. In questo momento abbiamo una grande incertezza. Anche il semplice fatto di dover usare necessariamente i PARP inibitori in pazienti mutati sta aprendo delle problematiche di ordine pratico. Purtroppo infatti non sempre è facile arrivare alla determinazione della mutazione BRCA per via del materiale tumorale che abbiamo a disposizione per fare il test molecolare».

Le difficoltà tecniche

Attualmente per poter utilizzare olaparib, occorre infatti verificare la presenza di una mutazione somatica nei geni BRCA. Idealmente bisognerebbe fare il test molecolare su tessuto tumorale “fresco”, facendo una nuova biopsia al paziente. «Il problema è che nove pazienti su dieci hanno come disponibilità di lesione metastatica solo una lesione ossea – fa notare Caffo -. Peccato però che ottenere il DNA per il test da una biopsia ossea non è così facile. Diventa quindi difficile identificare i pazienti candidati alla terapia con olaparib. Spesso si finisce con l’eseguire il test su materiale d’archivio vetusto (da una precedente biopsia sul tessuto tumorale), già oltre i cinque anni, e ciò comporta un tasso di insuccesso tecnico particolarmente elevato».

I punti interrogativi sulla strategia terapeutica più adatta

I nuovi studi sui PARP inibitori stanno aprendo nuove strade, ma allo stesso tempo anche dei punti interrogativi su quale sia la strategia terapeutica migliore da proporre ai pazienti, visto che i dati sul vantaggio globale intermedio e la sopravvivenza complessiva sono ancora immaturi.

«Il problema in concreto è duplice. Dovendo trattare un paziente con mutazione BRCA, è meglio giocare la carta della terapia di combinazione (terapia ormonale di nuova generazione insieme al PARP inibitore) in prima linea o ricorrere a quella che è l’attuale strategia terapeutica sequenziale in cui si utilizza la terapia ormonale in prima linea e il PARP inibitore in seconda linea? Il quesito per ora rimane aperto perché non sono disponibili dati maturi sulla sopravvivenza globale per la strategia di combinazione, cosa che impedisce di fare chiarezza sul problema» conclude Caffo.

Antonella Sparvoli

© 2022 Fondazione Mutagens ETS. Tutti i diritti riservati.

Leggi altre notizie