Tumore alla prostata e PARP inibitori

Riprendiamo in parte un touchTALKS nel quale Neal Shore del Carolina Urologic Research Center parla di questi farmaci e cogliamo l’occasione per fare il punto sul loro impiego nel carcinoma avanzato

Nell’ultimo decennio sono stati compiuti notevoli progressi nel carcinoma prostatico resistente alla castrazione e ora i PARP inibitori hanno aperto ulteriori orizzonti. L’introduzione di questi farmaci ha evidenziato ancora di più l’importanza della profilazione e dei test genomici. Non solo, ha dato il via a nuovi trial clinici.

“Fino al 30% degli uomini affetti da carcinoma prostatico resistente alla castrazione presenta mutazioni nei geni di riparazione della ricombinazione omologa (HRR), tra cui i ben noti geni BRCA1 e BRCA 2 – spiega Neal Shore del Carolina Urologic Research Center, South Colina, USA -. Ed è proprio in questi pazienti che i PARP inibitori hanno dimostrato la loro efficacia in termini di prolungamento della vita, oltre che in soggetti con tumori della mammella, dell’ovaio e del pancreas, associati a mutazione in questi stessi geni».

Meccanismo d’azione dei PARP inibitori

I PARP inibitori hanno come bersaglio una famiglia di proteine chiamate PARP (poli-ADP ribosio polimerasi) coinvolte in diversi processi tra cui la riparazione del DNA e l’apoptosi (ovvero la morte cellulare programmata). Le proteine PARP, insieme ai geni BRCA, sono le prime a rispondere quando si verifica un danno nel DNA: lo individuano e poi inviano segnali ad altre proteine per ripararlo. In assenza di BRCA1 o BRCA2 funzionali (quindi, in presenza di cellule tumorali con BRCA-mutato le quali accumulano più alterazioni, rendendo il tumore più aggressivo e in grado di sopravvivere più a lungo), l’inattivazione delle proteine PARP da parte di questi farmaci fa sì che nel nucleo della cellula tumorale si accumulino frammenti danneggiati di DNA, a singolo filamento (single strand) e a doppio filamento (double strand: DSB). I “DSBs” del DNA danneggiato rimangono non-riparati, con conseguente arresto della crescita cellulare, della sua divisione, fino ad arrivare alla morte delle cellule tumorali.

In sintesi i PARP inibitori agiscono annullando i meccanismi di riparazione del DNA nelle cellule neoplastiche, con la conseguente morte delle cellule malate.

Lo studio PROfound

Il primo grande trial clinico di fase III che ha dimostrato i benefici dei PARP inibitori, in particolare del farmaco olaparib, nel tumore prostatico avanzato, è stato lo studio PROfound. Nello studio sono stati presi in considerazione pazienti con mutazioni germinali in uno dei 15 geni di riparazione della ricombinazione omologa (tra cui BRCA1, BRCA2 e ATM) e tumore alla prostata che erano andati in progressione dopo una precedente linea di trattamento con nuovi agenti ormonali, enzalutamide e/o abiraterone. In questi pazienti la terapia target con olaparib si è dimostrata in grado di ridurre il rischio di morte del 31%. Non solo, i pazienti che ricevevano olaparib restavano liberi dalla progressione della malattia per un tempo doppio rispetto a quelli sottoposti a un trattamento standard. Segno di un evidente beneficio anche in termini di sopravvivenza.

Altri studi di fase II hanno evidenziato le potenzialità di altri PARP inibitori, quali rucaparib, talazoparib e niraparib.

Impiego dei PARP inibitori

Individuare le alterazioni dei geni BRCA1 e BRCA2 è essenziale nelle forme avanzate di carcinoma alla prostata, per identificare i pazienti che potrebbero trarre beneficio dai PARP inibitori. Quest’ultimi sono efficaci sia nel caso di mutazioni germinali e quindi associate a sindromi eredo-familiari (che possono essere trasmesse per via ereditaria) sia in presenza di mutazioni somatiche, che avvengono in qualunque cellula dell’organismo.

Attualmente l’unico PARP inibitore ad aver ricevuto l’approvazione da parte dell’Agenzia Europea per i Medicinali (EMA) per il trattamento del tumore alla prostata metastatico nei pazienti con mutazioni BRCA1 o BRCA2, dopo progressione da precedente trattamento con nuovi agenti ormonali, è olaparib, ma in Italia la somministrazione ancora non è possibile, se non all’interno di specifici studi clinici.

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