23 Febbraio 2021Sindromi ereditarie e tumori ginecologiciApprofondimenti e interviste Riconoscere che un tumore dell’ovaio o dell’utero sia associato a una mutazione germinale può avere importanti implicazioni per la donna malata, ma anche per i familiari sani a rischio. Ce lo spiega in questa intervista Domenica Lorusso della Ginecologia oncologica della Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS di Roma, oltre che membro del Comitato scientifico di MutagensLa ginecologia sta assistendo a un cambiamento epocale delle strategie diagnostico-terapeutiche dei tumori ginecologici. Oggi le innovazioni della genomica e i marker molecolari permettono sempre più di mettere in atto strategie di prevenzione, diagnosi e trattamento di questi tumori “cucite su misura”. La medicina di precisione sta facendo passi da gigante soprattutto nella gestione delle sindromi eredo-familiari associate a tumori dell’ovaio o dell’utero. La possibilità di analizzare in dettaglio il patrimonio genetico di ogni singolo individuo e individuare così l’eventuale presenza di una data mutazione può infatti contribuire a individuare una strategia terapeutica personalizzata con verosimili maggiori probabilità di successo. Altrettanto importanti possono essere le ricadute per la prevenzione o la diagnosi precoce di altri potenziali tumori associati alla sindrome, oltre che l’avvio di percorsi di screening e sorveglianza dei familiari sani a rischio. È proprio questo uno dei fronti su cui sta lavorando Mutagens nell’ambito del Progetto sui Percorsi Alto Rischio Eredo-Familiare, nato dalla collaborazione con Alleanza Contro il Cancro (ACC) e quattro prestigiosi IRCCS (Istituto Europeo di Oncologia, Ospedale San Raffaele di Milano, Humanitas di Rozzano e Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma).Ne abbiamo parlato con Domenica Lorusso, coordinatrice del Team ginecologia del Progetto di Mutagens sui Percorsi Alto Rischio Eredo-Familiare, oltre che Responsabile dell’Unità operativa di programmazione ricerca clinica presso Fondazione Policlinico Gemelli IRCCS di Roma.Quali sono le principali sindromi ereditarie associate a tumori ginecologici?La più nota è la sindrome del cancro ereditario della mammella e dell’ovaio (HBOC), associata a mutazioni nei geni BRCA1 e BRCA2. A farla conoscere al grande pubblico, forse più dell’impegno di clinici e ricercatori, ha contribuito molto, per la grande visibilità mediatica, Angelina Jolie. Portatrice di una mutazione nel gene BRCA1, l’attrice e regista è stata una delle pioniere della chirurgia profilattica (mastectomia bilaterale prima e annessiectomia poi) per ridurre il rischio di ammalarsi, destando molto scalpore. La sindrome HBOC, oltre ad aumentare il rischio dei tumori di seno e ovaio, è chiamata in causa anche per l’aumentato rischio di altri tumori, tra cui quelli di pancreas, prostata e melanoma. Un’altra importante e diffusa sindrome ereditaria che si sta sempre più delineando nei tumori femminili, è la sindrome di Lynch, dovuta a mutazioni germinali nei geni di un sistema conosciuto come mismatch repair (MMR), coinvolti nella riparazione di alcuni “errori” generati durante la replicazione del DNA. L’instabilità genomica che ne deriva è associata a vari tipi di tumori. Il più noto è quello del colon-retto, ma non è l’unico. Si è infatti visto che alcuni tumori dell’endometrio, soprattutto quelli a cellule chiare, possono essere correlati alla sindrome di Lynch, per la quale sono anche dei tumori “sentinella”. Non solo, il 10 per cento dei tumori ovarici sembrerebbe legato a questa sindrome.A chi andrebbero proposti i test genetici per queste sindromi?Fino ad alcuni anni fa, si considerava che avessero diritto al test genetico per la sindrome HBOC solo le donne che avevano sviluppato un tumore al seno o all’ovaio in giovane età oppure con una forte familiarità per questi tumori. Oggi però, in particolare per il tumore dell’ovaio, tutte le linee guida concordano sull’opportunità di proporre il test BRCA a tutte le pazienti con tumore dell’ovaio non mucinoso e non borderline, indipendentemente dall’età (oltre il 40% delle diagnosi di mutazione si ha in donne con tumore ovarico in età superiore ai 60 anni) e dalla presenza di una storia familiare (fino al 40% delle donne con tumore ovarico legato alla mutazione BRCA non ha una storia familiare). È fondamentale che il test venga eseguito alla diagnosi del tumore perché l’eventuale presenza di una mutazione BRCA ha implicazioni importanti per la paziente, sia in termini sorveglianza più stretta per la mammella e di scelta del trattamento di prima linea dopo l’intervento chirurgico, sia per l’estensione del test a tutti i familiari sani, donne e uomini. Il gene mutato non si trasmette per via materna, ma può essere ereditato anche dai maschi, esponendoli a un rischio maggiore di sviluppare alcuni tumori (mammella e prostata in primis, ma non solo). In ogni caso bisogna tenere presente che avere il gene mutato non significa avere la malattia, ma solo maggiori possibilità di svilupparla per cui questa informazione diventa un’arma importante da usare contro la malattia.Per quanto riguarda i tumori ginecologici che potrebbero essere associati alla sindrome di Lynch, in particolare in caso di diagnosi di tumore dell’endometrio (a maggior ragione se a cellule chiare e insorto in una sede particolare dell’utero chiamata istmo), oggi dovrebbe essere eseguita di routine l’analisi genomica dell’instabilità microsatellitare (MSI) e /o della colorazione immunoistochimica per le proteine MMR. In caso di positività, i passi successivi dovrebbero essere la ricerca della mutazione nel sangue (se positiva indicativa di una mutazione germinale) e l’estensione dei test ai consanguinei. I familiari ai quali dovesse venir diagnosticata la sindrome di Lynch potrebbero infatti essere sottoposti ad un’aumentata sorveglianza (ad esempio colonscopia e gastroscopia tutti gli anni) o addirittura a chirurgia preventiva (per esempio rimozione dell’utero e delle ovaie nei tumori ginecologici), prima che un tumore si sviluppi.Quali le possibili ricadute?Sapere se un tumore è associato a una sindrome ereditaria è molto importante sia per la paziente stessa sia per i suoi familiari. Per esempio le donne con un tumore ovarico associato a mutazioni BRCA hanno una prognosi migliore perché meno capaci di riparare i danni che la chemioterapia fa sul tumore. Inoltre i recenti successi ottenuti con i PARP inibitori stanno cambiando la storia di questo tumore nelle donne mutate. La somministrazione dei PARP inibitori al termine della chemioterapia di seconda linea a base di platino ha permesso di prolungare notevolmente l’intervallo libero da progressione, ma nuovi dati ne stanno evidenziando la validità anche nel trattamento di prima linea dopo l’intervento chirurgico. Dall’altra parte, per quanto riguarda la sindrome di Lynch, si è visto che i tumori ad essa associati rispondono meglio degli altri all’immunoterapia. E a questo proposito è recentissima l’approvazione in Europa di un anticorpo monoclonale anti-PD-L1, il Dostarlimab, nei tumori dell’utero che hanno recidivato dopo terapia a base di platino. Il farmaco è già disponibile in Italia nell’ambito di un programma “early access” promosso dall’azienda che lo produce, ma non ancora rimborsato. Come accennato, la consapevolezza di essere portatori di mutazioni germinali associate a tumori eredo-familiari può avere ricadute importanti anche per i familiari sani, offrendo la possibilità di intraprendere percorsi di screening, prevenzione e diagnosi precoce.Come andrebbe gestita la presa in carico dei pazienti affetti e dei portatori sani?E’ fondamentale una presa in carico totale dei pazienti e dei familiari sani. È proprio su questo fronte che stiamo lavorando con Mutagens e Alleanza Contro il Cancro, con l’obiettivo di creare programmi di sorveglianza condivisi e centralizzati. L’idea è che malati e sani vengano guidati e assistiti nel loro percorso di cura e/o prevenzione con il supporto anche di figure specializzate, a partire dallo psiconcologo. Per ora con Mutagens abbiamo avviato un percorso iniziale con quattro IRCCS (Istituto Europeo di Oncologia, Ospedale San Raffaele di Milano, Humanitas di Rozzano e Fondazione Policlinico Universitario A. Gemelli di Roma), ma l’intento è quello di aprirlo a tutti gli IRCCS della rete ACC e di creare un modello esportabile in tutta Italia. Sarebbe molto utile che questo percorso venga costruito a quattro mani, confrontandosi e tenendo conto anche della voce dei pazienti e delle loro necessità, fruitori unici e ultimi del percorso di presa in carico.Condividi sui socialFacebookLinkedInTwitter
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