Olaparib per il tumore al pancreas avanzato

Due studi clinici di fase 2 segnalano l’attività tumorale di questo PARP inibitore anche in tumori del pancreas metastatici associati a mutazioni in geni di riparazione del DNA diversi da BRCA1 e 2. Lo segnala un articolo pubblicato su JAMA Oncology

Circa il 10-20 per cento dei pazienti con carcinoma duttale del pancreas presenta alterazioni genetiche in geni di riparazione del DNA diversi da BRCA1 e BRCA2. Nonostante ciò anche questi individui sembrerebbero trarre benefico dal trattamento con PARP inibitori, in particolare con Olaparib. Lo suggeriscono due studi clinici paralleli di fase 2 non randomizzati, condotti su 46 pazienti con tumore metastatico che erano stati sottoposti in precedenza a una o più terapie sistemiche. Lo segnala un articolo pubblicato di recente su JAMA Oncology.

BRCA e Olaparib

I pazienti con carcinoma duttale del pancreas che presentano mutazioni germinali nei geni BRCA1 o BRCA2 hanno di norma una prognosi più favorevole e risultano sensibili agli analoghi del platino e ai PARP inibitori, in particolare ad Olaparib. I risultati dello studio POLO, in particolare, hanno portato all’approvazione da parte della FDA di Olaparib per le fasi di mantenimento della malattia a valle di protocolli a base di derivati del platino nei pazienti metastatici portatori di mutazioni BRCA. Il farmaco, ad oggi, non è stato approvato in Italia, ma è disponibile attraverso un programma speciale di accesso allargato, finanziato dalle aziende Astra Zeneca e MSD, su richiesta motivata dell’oncologo. 

Nuovi dati

I nuovi dati emersi dai due studi clinici di fase 2 suggeriscono che le indicazioni all’uso dei PARP inibitori, nel caso specifico di Olaparib, potrebbero in futuro essere allargate anche a pazienti che presentano alterazioni genetiche in geni di riparazione del DNA diversi da BRCA1 e BRCA2. Dalle ricerche è emerso un tasso di risposta parziale del 2%, un tasso di malattia stabile del 72%, una sopravvivenza mediana libera da progressione di 3,7 mesi e una sopravvivenza globale mediana di 9,9 mesi senza effetti tossici inattesi.

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