Focus sui tumori ereditari nel Piano Oncologico Nazionale

Omogeneità della presa in carico ed estensione degli screening per identificare i soggetti ad alto rischio eredo-familiare di cancro: questi i principali obiettivi strategici per i prossimi cinque anni

In attesa dell’approvazione definitiva, dopo la sua trasmissione alla Conferenza Stato-Regioni, il Piano Oncologico Nazionale (PON) 2022-2027 dovrebbe presto entrare nel vivo con numerosi obiettivi da attuare. Tra i diversi campi di intervento individuati c’è anche quello delle sindromi eredo-familiari di predisposizione ai tumori alle quali è stato dedicato, per la prima volta, un intero capitolo, intitolato “Screening e presa in carico personalizzata per i soggetti ad alto rischio eredo-familiare”. Facciamo il punto sul tema con Salvo Testa, presidente della Fondazione Mutagens (delegato per FAVO nel Tavolo di Lavoro del PON), che ha contribuito alla stesura del capitolo sui tumori ereditari.

Salvo Testa

Sindromi ereditarie di predisposizione ai tumori

Si calcola che fino al 15,0-17,5% dei tumori, molto più di quanto si ritenesse in passato, insorga in persone ad alto rischio, in quanto portatrici di una variante patogenetica ereditaria che predispone allo sviluppo del cancro. Si tratta dunque di un ambito importante con diverse ricadute a partire dal fronte della prevenzione. Questo è ancora più vero se si considera che i destinatari di eventuali interventi non sono solo persone che hanno già sviluppato un tumore, ma anche e soprattutto individui sani a rischio in virtù proprio della loro familiarità/ereditarietà. «L’identificazione precoce dei portatori permette di attivare misure di prevenzione primaria e secondaria (diagnosi precoce) che possono ridurre in modo significativo l’incidenza e/o la mortalità per tumori in questa fascia della popolazione» sottolinea Salvo Testa.

Integrazione tra screening e presa in carico

Una prima importante novità del capitolo del PON sui tumori ereditari riguarda l’integrazione tra i programmi di screening sui soggetti sani a rischio ereditario e i programmi di presa in carico degli individui malati. «Nel PON si dice per la prima volta che bisogna inserire a livello a nazionale dei piani di screening ad hoc per gli individui ad alto rischio eredo-familiare da affiancare a quelli che già esistono per tutta la popolazione» fa notare Salvo Testa. Ciò in quanto i portatori di sindromi ereditarie generalmente si ammalano ad un’età più precoce e quindi gli screening per la popolazione normale, dopo i 45-50 anni, non sono in grado di portare dei benefici ai soggetti ad alto rischio.

Affinché ciò accada è fondamentale migliorare le strategie per la loro identificazione, agendo su più fronti, come puntualizza il presidente della Fondazione Mutagens. «Serve la collaborazione dei vari attori del territorio, a partire dai medici di famiglia e dalle Case di comunità. Occorre agire al di fuori dalle strutture ospedaliere, sui soggetti ancora sani, per identificare quelli a rischio, come già succede in alcune regioni virtuose – in primis l’Emilia Romagna – in cui vengono proposti ai pazienti dei questionari per capire se esista o meno una familiarità per i tumori. In presenza di una casistica suggestiva tali persone possono essere indirizzate alle strutture ospedaliere per un approfondimento genetico volto ad accertare la presenza di una sindrome ereditaria. In tal modo si può giungere all’identificazione dei portatori con varianti patogenetiche germinali prima che si ammalino. Non solo, se si individua un primo soggetto portatore nella famiglia poi si possono testare tutti gli altri membri, anche se risiedono in regioni diverse rispetto al primo caso identificato» fa notare Testa.

La prevenzione

Un approccio di screening mirato pone un forte accento sulla prevenzione. «Una volta identificati i soggetti ad alto rischio si possono mettere in atto strategie di prevenzione sia primaria, per esempio con gli interventi chirurgici profilattici su mammella, ovaio, endometrio, qualora indicati, sia secondaria, con la messa in atto di protocolli di sorveglianza e diagnosi precoce – riferisce Testa -. Il Piano Europeo per Combattere il Cancro (Europe’s Beating Cancer Plan), a cui si è ispirato anche il PON italiano, dice che circa il 40% di tutti i tumori potrebbe essere prevenuto agendo sui fattori di rischio. Ma quando parliamo di soggetti ad alto rischio genetico, che sono teoricamente tutti identificabili nel medio-lungo termine, questa percentuale potrebbe essere notevolmente innalzata. Quindi il tema dello screening genetico ha una portata davvero importante perché si può fare prevenzione primaria e secondaria solo se si identificano prima tali soggetti, sia quelli malati sia quelli sani a rischio di malattia».

I percorsi di presa in carico

Lo screening può portare a benefici tangibili solo se accompagnato dalla presa in carico della persona, o meglio dei membri della famiglia, ad alto rischio, all’interno di strutture che abbiano percorsi dedicati. «I percorsi diagnostico-terapeutici-assistenziali (PDTA, ora denominati PSDTA dove la “S” sta proprio per screening) per i soggetti ad alto rischio devono agire su due livelli. Da una parte servono percorsi per i soggetti malati per indirizzarli a interventi chirurgici, terapie oncologiche e protocolli di prevenzione di altri tumori che possono essere associati alla sindrome ereditaria. Dall’altra servono percorsi per la sorveglianza dei soggetti sani ad alto rischio, sui diversi organi coinvolti, essendo di norma le sindromi associate a rischi su più sedi del corpo. Questo deve valere soprattutto, almeno in una prima fase, per le sindromi ereditarie più note e diffuse, quali la sindrome dei tumori ereditari della mammella e dell’ovaio (HBOC, legata a mutazioni nei geni BRCA e HRD, cioè a difetti della ricombinazione omologa del DNA) e la sindrome di Lynch, legata a mutazioni nei geni del MMR, cioè del sistema di riparazione del DNA» chiarisce Testa.

Rendere omogenei i percorsi

Un altro tema molto importante preso in esame nel capitolo sui tumori ereditari all’interno del PON 2022 2027 riguarda il nodo della disomogeneità e dell’iniquità dei percorsi e della presa in carico dei soggetti ad altro rischio nelle 21 regioni/province autonome italiane. «Una delle sfide maggiori che ci attendono è quella di rendere omogenei i percorsi di sorveglianza e presa in carico in tutte le regioni. E non solo per la sindrome BRCA e Lynch, ma anche e soprattutto per le altre sindromi più rare. C’è l’auspicio che si arrivi a una maggiore uniformità a livello nazionale e anche regionale – dice Testa -. In questo contesto tutte le Reti oncologiche regionali (ROR) dovrebbero formalizzare i PDTA delle neoplasie e delle sindromi ereditarie, in modo da creare delle sinergie tra le strutture della stessa regione, per sfruttare al meglio risorse e competenze esistenti sul territorio. Il problema è che non tutte le regioni hanno formalizzato le reti oncologiche regionali e non tutte le reti oncologiche già esistenti hanno prodotto tutti i PDTA a cui le strutture ospedaliere dovrebbero attenersi».

Prestazioni da inserire nei Livelli essenziali di assistenza

«Anche sulle prestazioni occorre lavorare molto per renderle omogenee e ridurre di conseguenza la mobilità dei pazienti da regione a regione – continua Testa -. Basti pensare ai test genetici sul sangue periferico: non tutte le regioni li rimborsano per tutti i soggetti (in particolare i familiari sani) e molti pazienti si devono spostare altrove per potere avervi accesso. La situazione è ancora più arretrata per i test di profilazione genomica abbinati alle terapie e per gli interventi di chirurgia profilattica, che non vengono rimborsati da tutte le regioni nello stesso modo oppure per i quali vengono posti dei tetti di spesa per le strutture pubbliche e per quelle private in convenzione».

Una volta definite accuratamente tutte le prestazioni fondamentali dei PDTA di presa in carico di tali soggetti il passo successivo dovrebbe quindi essere quello di inserirle nei Livelli essenziali di assistenza (LEA) nazionali in modo tale da eliminare la discrezionalità, ma anche l’iniquità oggi esistente tra una regione e l’altra. «Senza dimenticare che nei soggetti ad alto rischio il tempo con cui il Sistema sanitario si prende carico di queste situazioni è molto importante, perché nell’attesa delle prestazioni (un test genetico o genomico, un intervento chirurgico profilattico, una terapia personalizzata) il soggetto si può ammalare oppure è costretto a ritardare una cura che potrebbe essere salvavita. Quello della tempestività della presa in carico sia per malati sia per i sani, a rischio, è fondamentale. Se si è tempestivi, si può evitare che molte persone si ammalino o si ri-ammalino, con ricadute positive anche sul fronte dei costi, specie nel medio-lungo termine. La questione critica è portare a regime questo approccio nei soggetti ad alto rischio e l’auspicio è che l’attuazione di tale capitolo del PON possa costituire un primo pilastro in tale direzione» conclude il presidente della Fondazione Mutagens.

Antonella Sparvoli

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